Annìle. Ovvero falsa fiaba della montagna di ferro
- Autore: Edoardo Mantega
- Genere: Fantasy
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2025
Che titolo questo romanzo, te lo raccomando. Mica nel significato ironico di tenersi alla larga, però: al contrario, lo segnalo come un prodotto interessante, senza timore di smentita, per quanto opera prima di un esordiente, Edoardo Mantega. Si tratta di Annìle. Ovvero falsa fiaba della montagna di ferro, per le Edizioni Il Maestrale (gennaio 2025, collana Narrativa, 176 pagine). Un fantasy, che ancora inedito è valso al giovane autore il Premio Gramsci 2023. Un racconto di contenuto fiabesco. Mi piace chiamarlo una favola sarda, con un prologo, una nota finale e quattro atti, ognuno relativo a una stagione (in ordine non cronologico: primavera, autunno, inverno, estate), a confermare le radici ancestrali, pastorali, di questo particolare racconto.
Mantega, 1995, radici oristanesi, laurea in lettere moderne e produzione multimediale, insegna italiano e storia nelle secondarie, a Cagliari. Ha già ottenuto riconoscimenti col racconto lungo La promessa di esserci (Premio Letterario Città di Sassari, 2024).
In Sardegna, l’annìle è il recinto di roccia lavica in cui vengono protetti gli agnelli. La montagna di ferro è il complesso boschivo del Montiferru, subregione nell’Oristanese e principale massiccio vulcanico dell’isola. Confina col Campidano e culmina nel monte Urtigu, 1050 metri, nel circondario di Santu Lussurgiu. Un’area forestale violentata nel 1994, per inciso, da un incendio boschivo indomabile d’origine dolosa, che ha lasciato un segno nell’ambiente e nella memoria, duplicato nel 2021 da un altro evento disastroso. Danni incalcolabili anche in questo caso, per il fuoco divampato da un’auto in fiamme sulla provinciale. Un territorio che ha un’anima: per gli antichi Romani era il genìus loci, lo spirito della terra. Del Montiferru, in questo caso. Che piange.
Non c’è d’attendersi il razionale: nelle pagine di Edoardo prevale il sogno. Ci si lascia trasportare dal lirismo della parola, guidati dalla sua fantasia incontro all’anima della sua terra, che nel romanzo s’incarna in un suggestivo protagonista. La montagna, quella di ferro, gli è sempre sembrata “perfezione già sfiorita, contrasti in movimento”, il cielo sereno o nuvoloso, i sentieri puliti e intricati, i rovi ostili, i fiori colorati. Gli ha sempre dato “l’illusione di poter sparire, di potersi nascondere”. La descrive come un micro-ecosistema a sé stante, lontana dal profilo turistico dei rilievi d’Italia, non alta, povera di neve se non nei periodi più freddi, adatta alla piccola transumanza. Se n’è innamorato, con un trasporto quasi erotico. Ricorda la prima notte lassù, sorpreso da tanti suoni - la natura non è silenzio - e confessa la sua ossessione: scoprire la vita e la storia di questi siti, “rubarne i segreti profondi, le voglie inconfessabili. Le inevitabili mancanze”.
Mantega è a tratti indecifrabile nella personalissima ricerca del significato di certi luoghi dell’anima e nell’ascolto di quanto cercano di comunicare, senza che i più riescano a comprendere. Meno ermetico, e a suo modo tanto poetico, risulta il canovaccio della storia che racconta, facendo sostenere a chi firma il prologo di avere rinvenuto un diario di pelle sgualcita, sotto una pietra annerita dal fuoco in un vecchio ricovero di agnelli, il ventisette luglio dell’anno 2021, sulle cime del Montiferru. Pagine scritte chissà in quale tempo.
Tutti in paese conoscono Annìle. Il ritrovatore l’ha pure visto. La prima volta - era gennaio del 1995 - aveva l’aspetto di una volpe, annunciata dal rumore di passi nel fitto del bosco e da un lamento di vecchio. Si aspettava un anziano,
inselvatichito e nudo, pasciuto e gonfio di corbezzoli. Magari un po’ pazzo. Un tardo hippie di Oristano dal sorriso grande e dalla barba incolta.
Che sorpresa veder sbucare la testa di una volpe. Manto rosso, occhi scuri. È rimasta a guardarlo per qualche minuto, poi ha fatto “come un occhiolino”, prima di dileguarsi nel sottobosco. Gli avevano detto che quello era Annìle, descrivendolo come un vecchio dalla barba bianca e l’età indefinita, salito per sempre al monte. Però le versioni sono tante e imprecise, chi dice sia finito lassù dalla metà dell’Ottocento, chi ritiene abiti la montagna dai tempi dei Giudici, secoli fa, chi giura sarà stato solo il ’59, il ’60. Chi presenta, riconosce di non riuscire a stabilire cosa sia vero, ma dalla mattina in cui ha visto la volpe questa storia non l’ha più abbandonato. Aveva vent’anni e da allora ha cercato di sapere, battendo ogni sentiero del monte di ferro, chiedendo e richiedendo a tutti, a costo d’essere preso per pazzo.
Nessuna delle voci lo ha convinto, tranne una. A Cuglieri, un’anziana, Maddalena Beccu, ha detto di averlo visto una volta, nel 1950, nei pressi del pascolo dove il padre portava il gregge. Un’apparizione, un vecchio corpo nudo che saltava tra i graniti taglienti. Residui di brace calda e briciole di pane nel s’annile, piccola dimora, rifugio del padre, del nonno e altri avi. All’ingresso, una voce aveva suggerito un nome e una data: “Pietro Ladu, 1950”. Scesa in paese, l’undicenne l’aveva chiamato Annìle, perché stava lì. Ora ha ricordato quel nome, ma non crede sia mai esistito, era la montagna stessa a giocare scherzi.
Il cercatore non sa cosa sia, però ha scoperto tracce: la casa costruita coi rifiuti abbandonati nel bosco di sughero, i dipinti nelle grotte, le vecchie tombe, le impronte sotto decenni di polvere e muschi. Mancava solo la parola, ma ora l’ha scovata.
Le pagine del romanzo sono il lascito della strana figura. Raccontano di Annìle, la montagna che prende forma, si avvicina a Maddalena e la bimba che la sottopone a un “apprendistato umano", le insegna a scrivere, della vita e del tempo, riflettendo sulle cose semplici, su quelle vere, sull’uomo e sugli uomini, sull’universo e sull’universale. Sulla natura, aggredita dal fuoco.
Annìle. Ovvero falsa fiaba della montagna di ferro
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