L’11 settembre è una data storicizzata, una pagina di storia contemporanea che molti di noi possono dire di aver vissuto nel suo farsi. Anche senza ricordarlo precisamente sappiamo di esserne stati testimoni. L’evento potrebbe essere paragonato a un lutto o a una catastrofe collettiva che in seguito ha richiesto una lunga elaborazione: ne hanno parlato giornalisti, politici e anche i poeti. L’elaborazione poetica del fatto è stata successiva: una maniera di spiegarlo, di addolcirlo spogliandolo dei suoi connotati di tragedia.
Era già trascorso un anno dall’accaduto quando Mario Luzi scrisse una poesia dal titolo 11 settembre. Era il 2002: Luzi, che non era americano, cercava le parole per definire un dolore che non lo riguardava eppure lo riguardava, una ferita che si inscriveva nella Storia attraverso il dramma umano.
L’11 settembre 2001, la caduta delle Torri gemelle di New York, rappresenta un evento spartiacque nella cultura occidentale, tanto da determinare non solo un avvenimento cruciale ma anche un preciso stato d’animo: per la prima volta abbiamo avuto la sensazione precisa che il nostro mondo potesse essere minacciato, che la realtà in cui viviamo non fosse solida, ma fragile, che guerre e distruzione ci riguardassero da vicino minando le nostre inoppugnabili certezze culturali e sociali. Iniziava un lento processo di consapevolezza attraverso lo sgretolamento delle Due Torri, simbolo di New York: l’eco della loro caduta ci accompagna ancora oggi.
Il falling man, l’uomo che cadeva dalla torre in fiamme catturato dall’obbiettivo fotografico nel mezzo del suo folle volo, è divenuto la rappresentazione più perfetta dell’umanità dopo l’11 settembre: un’umanità che continua a cadere, in discesa continua, e non ha ancora trovato un appiglio cui aggrapparsi perché è il mondo intero che brucia, divorato dal fuoco di minacce visibili e invisibili come le guerre e il cambiamento climatico.
Lo sapeva bene Mario Luzi che aveva compreso, prima di tutti gli altri, che erano le Torri Gemelle, le torri cadute, il fulcro della poesia: erano un simbolo che ci parlava ancora - anzi, addirittura forse più di prima - attraverso la loro assenza.
Vediamone testo, analisi e commento.
L’11 settembre di Mario Luzi: testo
Dimettete la vostra alterigia
sorelle di opulenza
gemelle di dominanza,
cessate di torreggiare
nel lutto e nel compiantodopo il crollo e la voragine,
dopo lo scempio.
Vi ha una fede sanguinosa
in un attimo
ridotte a niente.
Sia umile e dolente,
non sia furibondo
lo strazio dell’ecatombe.Si sono mescolati
in quella frenesia di morte
dell’estremo affronto i sangui,
l’arabo, l’ebreo,
il cristiano, l’indio.
E ora vi richiamerà
qualcuno ai vostri fasti.
Risorgete, risorgete,
non più torri, ma steli,
gigli di preghiera,
Avvenga per desiderio
di pace. Di pace vera.
L’11 settembre di Mario Luzi: analisi e commento
L’11 settembre di Luzi guarda alle torri “ridotte a niente” che si fanno metafora struggente di vite straziate e, infine, incarnazione di umiliazione e sconfitta: le immagina risorgere, come “un’araba fenice”, simbolo della forza dell’umanità mai sconfitta dall’avanzare del caos.
La poesia ha una struttura bipartita: caduta e resurrezione; prima il poeta si sofferma sul “crollo e la voragine”, sullo strazio dell’ecatombe, poi - con la forza propria della poesia - avvera il prodigio dell’immaginazione: le torri risorgono e diventano emblema di “pace vera”. Luzi gioca sul contrasto guerra/pace, trasformando un evento sanguinoso e terribile nel suo opposto, rovesciando il dramma umano in preghiera collettiva.
Un ruolo importante lo riveste l’uso della parola “sangue”: la “fede sanguinosa” è l’emblema della distruzione operata dai terroristi islamici, persino a un termine in teoria positivo e intriso di buoni propositi come “fede” viene accostato a un’azione nefanda per tratteggiare la guerra di religione che ha portato morte; nella strofa successiva il termine “i sangui” designa invece un’unione umana, solidale, mescolanza cosmopolita di culture e religioni, quale è la stessa città di New York.
La morte stessa, in questa rappresentazione poetica, diventa una adunata, un’alleanza, che non ha nulla di spettrale ma ha invece molto di umano, poiché nella caduta delle torri tutte le etnie si sono unite, tutti gli uomini sono stati “uguali” nell’identico destino.
Anziché indugiare sulle immagini di morte e devastazione, Luzi preferisce concludere il suo testo dedicato all’11 settembre con il tono speranzoso di una preghiera e pone infatti a sigillo una parola apotropaica, in grado di dissipare le ombre del dubbio e del timore: “Pace”.
A un anno di distanza dal dramma che avrebbe cambiato per sempre la storia dell’Occidente resisteva, come un soffio, una flebile speranza: “pace”, una parola che solo la poesia poteva rendere tangibile e viva.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’11 settembre nella poesia di Mario Luzi: un monito per la pace
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