Venezia è invasa dall’acqua alta e le previsioni dicono che potrebbe durare ininterrottamente per giorni e notti. Per uno scrittore, il fenomeno dell’“aqua granda” può essere l’occasione per chiudersi in casa e scrivere il libro che troppo a lungo ha trascurato, occupandosi di altro. È accaduto a Cristiano Dorigo e al suo alter ego, il protagonista del romanzo Acque alte, che ho avuto l’onore di intervistare.
Acque alte, pubblicato nel 2024 nella preziosa collana Priamo del piccolo editore calabrese Meligrana, è un testo ibrido tra il saggio e il romanzo, scritto con la competenza dell’operatore sociale che nella sua vita si è occupato di disagio e con gli strumenti dello scrittore di racconti e storie veneziane e non solo. Sono le due facce, meglio le due anime di Cristiano Dorigo, educatore e scrittore, che si completano e si nutrono con il cibo delle storie di vita vissuta e della parola intesa come fiamma viva.
Raccontare di sé: grandi scrittori si trascrivono fra le pagine
Ogni scrittore scrive di sé e racconta agli altri la propria vita. La scrittura è una grande autobiografia e lo scrittore parla di quello che conosce. Così fu per Cesare Pavese nell’epopea delle Langhe, del suo mestiere di vivere e dei suoi amori difficili. Clelia, il personaggio di Tra donne sole, quando si confronta con la lettura di un romanzo dice:
ho sempre l’impressione di mettere il naso negli affari degli altri [...] Mi sembra una cosa indecente. Come aprire le lettere degli altri.
Questo è accaduto a Mastronardi con Il calzolaio di Vigevano o al Bianciardi di La vita agra, che raccontano di se stessi e del mondo che li circonda.
F.S. Fitzgerald, già dal suo primo romanzo Di qua dal Paradiso (1920), passando per Tenera è la notte – di cui scrisse ben cinque versioni dal 1925 e il 1934 – fino a Il grande Gatsby del 1925, scrive di sé e del suo amore drammatico con la moglie Zelda Sayre, all’interno dell’epopea degli anni Venti del XX secolo, quella chiamata “gli anni ruggenti”. Qualcuno sostiene che Fitzgerald abbia scritto un unico romanzo: quello della sua vita.
E che dire, passando ai giorni nostri, di un autore - citato dal nostro Dorigo – come lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgård (1968) diventato famoso per una serie di sei romanzi autobiografici, intitolati Min Kamp, ovvero La mia battaglia?
Scrivendo di sé e del mondo che lo circonda – o lo imprigiona -, lo scrittore deve essere però abile a rendere la propria storia universale affinché il lettore possa riconoscersi e trarne godimento. Dorigo parla di sé, e quando parla degli altri a lui vicino non fa pettegolezzi, non è indecente. Emanuele Pettener della Florida Atlantic University, nella postfazione del libro, scrive che Dorigo
racconta con pudore. Perché il dolore è il suo mestiere. Lo conosce, lo affronta, lo gestisce.
Venezia, Dorigo e le "ragazze": i personaggi di Acque alte
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Cristiano Dorigo in Acque alte descrive la sua Venezia: i canali, le fondamenta, i ponti, l’acqua che sale, le raffiche del vento, la pioggia, il suono delle sirene, il piccolo appartamento ereditato dai genitori con ancora il suo contenuto fantasmatico, “i sacchetti della spesa ben piagati e messi in ordine sotto il lavello”, dove per sette giorni rimarrà in clausura “per riuscire a finire le storie sospese delle mie ragazze”.
Le ragazze sono quelle che Dorigo ha incontrato nella sua vita di operatore sociale e che ha seguito per vent’anni in un percorso di costruzione di una vita nuova dopo i traumi degli abusi e delle violenze fisiche e psicologiche. Per loro, al fine di mantenerne l’anonimato, ha scelto nomi di fiori e dal giardino delle ragazze ha scelto otto fiori: Amarillys, Bucaneve, Dalia, Genziana, Lavanda, Margherita, Primula e Ninfea. Sette giorni di clausura per dare anima e fisicità narrativa a otto storie di dolore, di morte e di resurrezione di ragazze oramai diventate donne adulte con una propria autonoma esistenza, dopo anni di vita in comunità o ospiti di famiglie affidatarie.
Tra il giorno e la notte, tra le routine del quotidiano - il tempo nel bagno, il tempo del caffè, quello del pranzo e quello della cena - Dorigo parla anche di sé, della sua vita, dei suoi sogni, delle sue cadute, del suo dolore e della felicità. Descrive i suoi lutti personali e il faticoso percorso della loro elaborazione. Scrive delle sue battaglie, delle sue sconfitte e delle sue rinascite. Sono i tempi della quotidianità e della vita di ognuno di noi, ma Dorigo scrittore riesce a dare spessore universale a quelle storie comuni di ogni persona e di ogni generazione.
Per sette mattine e per sette notti durante i tempi dedicati all’igiene personale, di fronte allo specchio del bagno, Dorigo si confronta con la sua immagine che gli chiede
Chi sei tu? Come stai con la tua vita? [...] stasera dimostri tutti i tuoi anni, guardati, sei tu quando la noia ti mangia.
Il romanzo di Dorigo e la pace con l’Esistenza
L’altra faccia di Dorigo, l’anima, il suo daimon che forse arriccia il naso, lo sferza quando domanda “tu come stai?”, visto che ti occupi della vita degli altri. Come stai, quando l’acqua alta sommerge Venezia
Venezia che sprofonda sotto l’“aqua granda” è una metafora della vita, o potrei dire delle storie di Dorigo, perché poi le acque scendono e timidamente ritorna il sole. Perché dopo la tempesta tutto torna calmo, luminoso, quieto.
Il protagonista di questa storia, l’alter ego di Dorigo, quel viso riflesso allo specchio dice:
Non provo dolore, solo gratitudine, tenerezza, e mancanza. Ora tocca a me, mi dico.
Eh sì, ultimata la lettura di quello che mi permetto di definire a pieno titolo un romanzo - per la ragione che Dorigo potrebbe essersi inventato la professione di operatore sociale e aver immaginato la vita di otto ragazze difficili - il lettore avverte una sensazione di calma, di tenerezza, di pace con sé stesso, con il Mondo e la Natura. Insomma la pace con l’Esistenza, che per uno scrittore è foriera di storie così semplici e così insignificanti da diventare poiesis, ovvero una creazione umana.
Intervista a Cristiano Dorigo, autore di "Acque alte"
- Cristiano, in uno dei capitoli del libro più personali e più toccanti il protagonista maschile sogna di essere donna e madre e racconta alla propria figlia la gravidanza, il parto che l’ha generata e la trasformazione del suo corpo. È stato difficile assumere la fisicità e l’anima di un personaggio femminile?
È stato abbastanza difficile ma necessario. Avevo bisogno di una dichiarazione metaforica che seguisse quel modo di dire che, per rinascere, bisogna lasciar morire. Il processo di guarigione, o meglio l’esordio di quel percorso, riguarda tutti i protagonisti: lo scrittore, le sue ragazze, la sua città. Non se ne esce senza attraversare le ferite, i sintomi, gli ostacoli veri o presunti. È il corpo femminile che dà la vita e, nel protagonista maschio, questa facoltà può accadere solo attraverso il sogno, uno dei modi con cui l’inconscio si esprime. In fondo il libro racconta questo, un processo di guarigione, di apertura, di rinascita: l’acqua alta diventa liquido amniotico, il tempo formale trasforma quello psichico, il corpo maschile si trasforma in femminile e offre la possibilità di un nuovo inizio.
- Cristiano scrittore come gestisce l’immagine di sé allo specchio? Quell’immagine è un suggeritore, un terapeuta, un confessore, un rompiscatole?
Quell’immagine rappresenta, all’inizio, la distanza con la propria interiorità, al punto che gli pare sia l’immagine stessa, oltre il vetro, a guardarlo con uno sguardo che a stento riesce a sostenere, come fosse altro da sé. Col passare dei giorni, con l’esperienza coatta con sé e coi suoi fantasmi, l’immagine si ammorbidisce, diventa qualcosa che, poco alla volta, riconosce per quello che è: un’immagine appunto, che gli restituisce la realtà non più fantasmatica, ma concreta, reale. Quell’immagine da simbolo del distacco del sé torna ad abitarlo.
- Pur mantenendo la tua distanza dalle scelte risolute di Knausgård di mettere in piazza persone e storie, quanto ha inciso lo scrittore norvegese sulla tua scrittura autobiografica?
Karl Ove Knausgård è un autore che negli ultimi anni ho letto con grande interesse e trasporto. Nelle sue sei opere monumentali racconta senza alcuna censura la sua vita - e qui bisognerebbe fare un inciso sui meccanismi della memoria, ma non ho lo spazio per - e l’ho tirato in ballo per segnare la differenza con le mie scelte stilistiche. Ho infatti deciso di non scendere in particolari pruriginosi, di non raccontare particolari scabrosi, di non fare come i media contemporanei fanno, e cioè di usare quei contenuti al limite del pornografico pur di ottenere visibilità. Io non volevo tradire il rapporto di fiducia, di segretezza, di intimità con le ragazze che ho incontrato in questi anni. Da qui l’idea di chiamare le ragazze con nomi di fiori.
- Se io fossi stato il tuo editor, ti avrei suggerito di dare più spessore alla forma romanzo di Acque alte, lasciando il lettore sospeso tra vedere la realtà dei fenomeni e l’immaginazione degli stessi. Ho letto il tuo testo come un racconto e non come una sorta di riflessione ispirata dalla descrizione di casi clinici. Che mi rispondi?
Questa domanda non sono sicuro di averla compresa a fondo. Mi consente però di dire qualcosa rispetto alla scrittura. Questo libro non è un’autobiografia, benché ci sia molta verità al suo interno e molte somiglianze oggettive fra me e il protagonista. Da qui si è sviluppata l’idea all’interno della quale raccontare quelle storie e di parlare di un altro tema che l’occidente globalizzato contemporaneo elude: il rapporto con la morte, con il lutto, con il dolore, con il processo di guarigione. Ma il mio non è un linguaggio tecnico o clinico, bensì letterario. Il mio libro, concordo con te, è un romanzo composto di molti racconti che costituiscono un insieme omogeneo. Concludo con un’ammissione: le tue domande mi hanno costretto a un’analisi profonda che non avevo ancora affrontato, non con gli elementi che hai portato a galla almeno. Ti ringrazio molto per questo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Cristiano Dorigo, in libreria con “Acque alte”
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