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Recensioni di libri

La felicità dei mobilifici di Ingo Schulze

Marietti 1820, 2021 - Un libro a cura di Stefano Zangrando che raccoglie tre diversi interventi di Ingo Schulze, fra gli intellettuali che meglio si esprimono sulla contemporaneità.

Mario Bonanno
Mario Bonanno Pubblicato il 25-04-2021
La felicità dei mobilifici

La felicità dei mobilifici

  • Autore: Ingo Schulze
  • Genere: Filosofia e Sociologia
  • Categoria: Saggistica
  • Anno di pubblicazione: 2021

Il fatto è che ci siamo dentro, come si dice, dentro fino al collo. Assuefatti come siamo allo status quo, ci sfugge la prospettiva attraverso cui sarebbe possibile oggettivizzare il grado di illibertà raggiunto. Il sistema capitalistico ci ha talmente abituati alla normalità consumistica e all’obbedienza (alle leggi di mercato, al consumo, alla schiavitù tecnologica, all’obsolescenza programmata dei prodotti) che abbiamo recesso da ogni coscienza critica. Siamo così avvezzi ad assecondare gli stimoli dei bisogni indotti che ci sfuggono i meccanismi coercitivi che alimentano le ragioni (?) delle nostre scelte (persino delle scelte sulla salute). Decisioni solo apparentemente libere, di fatto dettate dalle lobby economiche col beneplacito della politica globale.

La felicità dei mobilifici (Marietti, 2021) è un libro che raccoglie tre diversi interventi di Ingo Schulze, fra gli intellettuali che meglio si esprimono sulla contemporaneità. Il suo testo, curato e tradotto in italiano da Stefano Zangrando, è quanto di meglio possa capitarvi di leggere su teoria e prassi delle mistificazioni – con conseguenti ricadute socio-ontologiche - del capitalismo globale. Cresciuto senza eccessiva fede nell’ex DDR, leggete cosa scrive a pagina 35 del primo dei tre segmenti di cui si compone il libro (“Viaggia e viaggia e poi non vede il ponte! Su vecchie nuove normalità e assurdità”):

“Le pratiche di una società che assume come ultima ratio il profitto privato e la sua moltiplicazione continua ed esponenziale non sono forse contrarie al bene comune e alla sopravvivenza del genere umano? È la ricchezza di una minoranza sempre più invisibile – se paragonata alla popolazione terrestre – a guidare le sorti del mondo”.

Per riprendere quanto ho scritto altrove: la dittatura incorporea del Capitale comincia in un tempo e in un luogo ben precisi. Comincia a Berlino, nel novembre del 1989 con la cosiddetta “caduta del muro”: il socialismo reale era tutt’altro che il paradiso in terra, però costituiva un efficace contraltare all’avanzata planetaria del liberalismo osceno che oggi detta le regole del vivere-per-consumare globale.

“I rapporti di forza nel mondo sono mutati dal 1989-90. Le “normalità” di allora (…) si sono globalizzate e in tal modo consolidate. Esse condizionano e cambiamo il mondo ininterrottamente, sono più efficaci della fine del conflitto fra i due blocchi. Una di queste “normalità” è un economicismo onnipervasivo, il cui mezzo e il cui fine possono essere individuati nella privatizzazione e nel profitto privato. Da ciò dipende tutto il resto, che ne è guidato e subordinato. Pensare qualcosa che non “renda”, che non serva alla crescita, che si sottragga al principio di McKinsey e alle quote, è un’opzione risicata e marginale. E tutto ciò viene interpretato come fine delle ideologie, come avvento di una politica conforme al mercato e orientata ai vincoli esistenti”. (pagg.30-31).

Se è vero che l’ostalgia non rientra nei piani di Ingo Schulze, è vero anche che il rimedio allo statalismo coatto dei paesi dell’est è stato egualmente deleterio. Sotto questo aspetto Schulze non si tira indietro, stigmatizzando le perversioni di un sistema che ha come peccato principale il peccato della reificazione massiva: avere ridotto milioni di cittadini-sudditi a un grado di non-consapevolezza. Milioni e milioni di individui uniformati nell’ignavia politica, distratti dalla miseria o dall’iper-consumo, incapaci di rendersi conto che le consuetudini di vita attraverso le quali si estrinseca l’attuale stato delle cose in Occidente, sono di fatto espressione fraudolenta di un ingranaggio antidemocratico, pervasivo quanto spersonalizzante. Non fosse pleonastico e forse troppo tardi, verrebbe da chiedersi come siamo arrivati a un livello tale di indifferenza di fronte alle evidenti contraddizioni del sistema capitalistico (il divario crescente tra ricchi e poveri, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali a beneficio dei consumi occidentali, la fiumana di migranti alle porte d’Europa) di cui dovremmo denunciare invece l’autoreferenza.

La felicità dei mobilifici – per chi sa cogliere, titolo di caustica caratura trans-mediale – assembla dunque pensieri e parole di Ingo Schulze ed è davvero un bel leggere significativo. Schulze ha peraltro una biografia che lo rende, in prima persona, spettatore/sperimentatore del passaggio: il transito dal socialismo reale al capitalismo globale. La biografia e l’acume non partigiano con cui guarda alla Storia abilitano Ingo Schulze alla denuncia senza sconti delle autocrazie capitaliste.

Dell’estratto da un dialogo pubblico fra lo scrittore e Stefano Zangrando (“Prossimità e distanza”, pagg. 46-47) mi annoto i periodi che seguono. Per come la penso sarebbero degni di accurata riflessione: l’entusiasmo con il quale il mondo ha accondisceso alle sirene del Capitale, mi appare piuttosto il segno di un abbaglio, di un approdo collettivo all’afasia.

“C’era bisogno – io almeno ho avuto bisogno – di fare un po’ di esperienza dell’Ovest per poter vedere esattamente che cosa c’era stato nella Ddr. E, naturalmente, bisogna dire che sotto l’aspetto politico e ideologico non c’era davvero libertà (…) Ma è naturalmente interessante capire quali altre libertà vi fossero invece nell’Est, delle quali oggi non si parla ormai quasi più. Io, per esempio, solo nella primavera del 1990 ho riflettuto per la prima volta sul denaro. Non che nella Ddr uno non avrebbe gradito guadagnare più soldi, ma il denaro non rivestiva alcun ruolo, ad esempio nella scelta della professione. Io ho studiato lingue antiche, latino e greco, e mio padre, che era nell’Ovest, mi disse sprezzante che la mia era (…) un’attività che non dà da vivere. Non compresi affatto cosa intendesse, o perché non avrebbe dovuto darmi da vivere: l’università era obbligata a procurare un lavoro ai suoi laureati. A prescindere da cosa avrei ricevuto, dunque, sapevo che non avrei guadagnato meno di altri. E anche il fatto di avere una bella abitazione non dipendeva dal denaro. Non voglio idealizzare nulla, c’erano semplicemente degli spazi di libertà di cui ci si è resi conto solo nel momento in cui non c’erano più”.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La felicità dei mobilifici

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