La locuzione latina vindica te tibi si ritrova nelle Epistole a Lucilio, l’opera probabilmente più conosciuta e studiata di Seneca, in cui compaiono molti temi fondamentali della filosofia stoica.
Vindica te tibi è dunque una massima di carattere morale ma anche un’esortazione amichevole, una delle tante espressioni intime e fraterne che ci restituiscono la cifra di una pedagogia non convenzionale ed estremamente moderna.
Scopriamo insieme qual è il significato dell’espressione latina vindica te tibi e a cosa è legata la sua origine: dietro questa frase, infatti, possiamo intravedere un importante ideale morale che molti filosofi dell’antichità avevano esaltato.
Il significato dell’espressione vindica te tibi
La locuzione latina vindica te tibi compare all’inizio della prima delle Lettere a Lucilio di Seneca, all’interno della frase:
“Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva”.
Tentiamo insieme una sommaria traduzione:
“Fai così, mio Lucilio: rivendica te stesso a te stesso, e il tempo che fino adesso ti era o sottratto o portato via o che ti scivolava via, ricomponilo e preservalo”
Il tono di tutta la frase è confidenziale e amichevole, è il suggerimento di un maestro che anziché impartire lezioni cattedratiche a un allievo lo esorta fraternamente, si mette sul suo stesso piano, dispensando suggerimenti pratici che si sostanziano di posizioni filosofiche ben definite.
Il tema è quanto mai attuale: la gestione del tempo, sulla quale tutt’oggi si tengono corsi di formazione per manager e aziende. Seneca suggerisce, innanzitutto, a Lucilio di riprendersi sé stesso: è questo il significato più pregnante dell’espressione vindica te tibi.
Vindico è un termine proprio del linguaggio giuridico, significa rivendicare, reclamare, pretendere qualcosa che era nostro e che ci è stato ingiustamente sottratto. Qui, però, il contesto del discorso è eminentemente morale e con l’utilizzo di questo verbo Seneca vuole dirci che dovremmo riappropriarci di noi stessi perché lo dobbiamo a noi stessi.
Abbiamo diritto soprattutto al nostro tempo, che Seneca considera come l’unico vero bene, e che spesso ci viene sottratto dalle questioni mondane in cui restiamo invischiati ma che, ancor più spesso, per negligenza nostra, lasciamo quasi inconsapevolmente fuggire via.
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C’è, in questa esortazione, un forte richiamo alla dimensione dell’interiorità; se volessimo usare le parole di Sant’Agostino, non commetteremo grandi errori a parafrasare con il suo “redii in te ipsum”: ci riappropriamo, infatti, del nostro tempo quanto riusciamo a distanziarci e a mettere tra parentesi gli affanni del mondo, quando allontaniamo l’ansia e smorziamo la fretta, ma anche quel turbinio di stimoli futili (dai gattini virali alle offerte del Prime Day) che affollano lo schermo del nostro cellulare.
Nel De brevitatae vitae Seneca affronta lo stesso tema e sostiene che il tempo della nostra vita è abbastanza lungo da consentirci di realizzare grandi traguardi, a patto però che lo impieghiamo bene; se trascorriamo la nostra esistenza nell’indifferenza e non diamo valore a quel che tempo che, sovente, siamo i primi a sprecare, alla fine quella vita apparirà troppo breve perché l’abbiamo vissuta senza accorgerci che passava.
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Le Epistole a Lucilio di Seneca
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Scritte con ogni probabilità tra il 62 e il 65 d.C. le Epistole morali a Lucilio sono 124 lettere distribuite in venti libri (ossia in venti gruppi manoscritti) che giungono a noi probabilmente incomplete e che, almeno in minima parte, sono state effettivamente spedite all’amico e discepolo Lucilio.
Seneca compone l’opera quando si è già ritirato dalla vita politica e dai fasti della corte di Nerone, negli ultimi anni della sua vita, e sceglie il genere epistolare con il chiaro intento di differenziarsi dalla consuetudine diffusa a Roma (di cui Cicerone costituisce un buon esempio). Egli vuole dar vita a un genere almeno in parte nuovo, di cui si ritrovano dei precedenti in Platone ed Epicuro. Proprio come Epicuro vuole scrivere delle lettere a carattere filosofico, che favoriscano il processo di formazione individuale del destinatario, con un approccio informale e, a tratti, intimo.
L’autore si rivolge a un interlocutore ben definito fin dal titolo dell’opera ma dietro a Lucilio potrebbe esserci chiunque altro: Seneca parla alla coscienza individuale e lo fa non con complesse argomentazioni filosofiche ma con richiami alla vita reale e alle sue concrete difficoltà, proprio allo scopo di fornire strumenti per un cammino di perfezionamento morale.
Seneca esalta l’otium che non è né puro piacere né svogliata contrapposizione agli affari e al negotium che tanta parte avevano nella civiltà romana: si tratta piuttosto di praticare una dimensione in cui è possibile riattivare il dialogo interiore, ascoltare quella coscienza che ci permette di discernere il bene e il male e ritrovare una libertà che ci sembrava perduta.
Ritrovare il tempo perduto significa allora riconquistare un margine di felicità e, contemporaneamente, procedere verso una virtù che ci permette di affrontare non solo le cose della vita ma anche l’angoscia della fine con mente salda e animo fermo.
L’origine del vindica te tibi e i suoi presupposti
Cosa c’è, allora, dietro al franco suggerimento di riprendersi se stessi? Il vindica te tibi ha origine nell’ideale greco dell’autarkeia ossia dell’autosufficienza. Si tratta di un valore di cui era pervasa l’etica cinica di Antistene e del suo discepolo Diogene, convinti della necessità di staccarsi quanto più possibile dal mondo per imparare a bastare a sé stessi, soprattutto in caso di bisogno.
Gli stoici, di cui Seneca, non a caso, è il principale esponente di età romana, aggiungono una particolare sfumatura: oltre alla capacità di staccarsi dalle vicende mondane, per loro l’autarkeia è legata all’atarassia, ossia alla capacità di raggiungere la pace interiore, anche allontanandosi dai piaceri terreni.
Per gli epicurei, invece, l’autarkeia, ossia la capacità di bastare a sé stessi, riveste fondamentale importanza soprattutto nel momento del bisogno: trovare soddisfazione con poco, accontentarsi, diviene allora fonte di un piacere stabile, aumenta la nostra decisione nei momenti difficili e ci dispone nel modo migliore di fronte a situazioni dispendiose.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Vindica te tibi”, la frase latina sul riappropriarci di noi stessi: chi l’ha detta e significato
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Molto interessante grazie. Vorrei approfondire di più l’argomento