Un borghese piccolo piccolo
- Autore: Vincenzo Cerami
“Mio figlio è ragioniere... il ragionier Vivaldi. Permette che le presenti mio figlio, dottore? La prego! ... Il ragionier Vivaldi, il dottor Spaziani, Caposezione, Ufficio Personale, Reparto Pensioni... Molto lieto! ...”.
Il sogno di Giovanni Vivaldi, ex contadino abruzzese morto di fame diventato col tempo burocrate ministeriale, stava per diventare realtà: suo figlio Mario grazie alle manovre paterne sarebbe stato assunto presso il Ministero dopo aver partecipato al concorso per 2000 nuovi posti.
“Farai strada, quant’è vero Iddio... Comincerai proprio da dove sono arrivato io, dopo trent’anni di servizio... e tu hai soltanto vent’anni...”.
Dalla sua abitazione romana in fondo al quartiere Tuscolano che sembrava “una vecchia latta ammaccata e arrugginita” dove i primi colori di luce sbavavano il cielo dei Castelli romani, Giovanni aveva raggiunto, come ogni giorno a bordo della sua Fiat 850, la sede del Ministero che non era lontana dalla Stazione Termini. In quella mattina nella quale Giovanni aveva compreso di non essere invecchiato inutilmente, il travet era arrivato nel suo ufficio, una stanza con cinque tavolini. Vivaldi si era seduto al suo posto ed era scomparso dietro una parete di fascicoli accatastati sulla scrivania che mandavano il consueto profumo di brillantina solida Linetti. Anche gli altri tavolini traboccavano di carte quindi degli impiegati si potevano ascoltare solo le rispettive voci. Mentre i tavolini parlavano tra di loro in un dialogo tra il comico e il surreale, Giovanni aveva di fronte a sé una cartella gialla su cui era scritto a inchiostro, in bella calligrafia, con caratteri maiuscoli, il suo nome e cognome: GIOVANNI VIVALDI. Quella cartella conteneva la sua pratica di pensionamento che presto sarebbe stata inoltrata presso la Corte dei Conti. Era arrivato il momento di passare il testimone a suo figlio Mario, per questo l’impiegato si era alzato dalla sedia per andare a parlare con il suo capoufficio, il Dottor Spaziani, che avrebbe sicuramente aiutato il neodiplomato ragionier Mario a superare la prova orale del concorso indetto per il gruppo B. “Hai mai sentito parlare di Massoneria?” aveva domandato il superiore all’ingenuo sottoposto. “Così... vagamente”. “Bene... fatti massone”. E Giovanni pur di far superare la prova orale a Mario si era fatto massone durante una ridicola e assurda cerimonia d’iniziazione. Giunto il giorno dell’esame padre e figlio, usciti da casa all’alba, dopo aver salutato la moglie e madre Amalia che era corsa nella vicina chiesa parrocchiale per raccomandarsi al Padreterno, si erano avviati verso il Palazzo degli Esami a Trastevere davanti al Ministero della Pubblica Istruzione. “Sei sicuro del fatto tuo?”. Padre e figlio avevano attraversato il centro della loro città (“Piazza Indipendenza, via Nazionale, via Quattro Novembre, piazza Venezia, poi Piazza del Gesù con la chiesa barocca, la sede DC, il palazzo della Massoneria e l’istituto per i sordomuti e infine Piazza Argentina”) quasi in silenzio sia perché erano troppo vicini a quella tappa così importante sia perché erano svuotati per la tensione. Giovanni e Mario erano sbucati in una piazzetta quadrata dove “successe quello che successe”.
“Fu insieme un batter d’occhio e un’eternità”.
In un secondo Mario era morto, ancora prima di crollare a terra, “un occhio immerso nella pozza di sangue, e l’altro spalancato a fissare ancora il padre”, il figlio di Giovanni e Amalia si trovava per terra, il sangue del ragazzo usciva dai suoi calzoni come da rubinetti lasciati aperti. L’urlo di una donna squarciava l’aria. Una rapina al Monte di Pietà, così alla luce del giorno.
“E quel giorno toccò a Mario e ci lasciò le penne”.
Giovanni si era ritrovato sopra di lui “con i circuiti elettrici completamente interrotti”. Dopo la tragedia pian piano ogni cosa era tornata al suo posto e i giorni erano ripresi a scorrere sui binari stabiliti dal calendario. Amalia era rimasta vittima di una trombosi circa un mese dopo la morte di Mario, la cui cassa si trovava ancora accatastata in un deposito del cimitero in attesa di un sepolcro più degno. I mesi passavano, gli uni uguali agli altri, esternamente tutto era come prima per Vivaldi (“solo lui conosceva i segreti del suo animo”), un buono che lavorando faceva il suo dovere fino al giorno nel quale l’uomo durante l’ennesimo riconoscimento in Questura si era ritrovato di fronte il giovane viso dell’assassino di suo figlio. Per il borghese piccolo piccolo Giovanni Vivaldi era giunto il momento di vendicarsi. “Era lui, senza il minimo dubbio. Il cuore di Giovanni si scosse tutto”.
Lo scrittore, sceneggiatore e drammaturgo Vincenzo Cerami, nato a Roma il 2 novembre 1940 da genitori siciliani e morto lo scorso 17 luglio, aveva pubblicato il suo primo romanzo nel 1976 con la casa editrice Garzanti nella collana Gli Elefanti. Una trama così inconsueta, originale, la storia di un uomo onesto che mediante un’atroce vendetta da vittima si trasforma in carnefice, che scavava a fondo nelle contraddizioni della società italiana degli anni Settanta, non poteva non trasformarsi subito in pellicola cinematografica. Solamente un anno dopo, nel 1977, il regista Mario Monicelli ne trasse l’omonima pellicola sapendo fondere tutti quei toni tragici, grotteschi e patetici che si ritrovano nelle espressioni del volto del protagonista del film, un Alberto Sordi allora all’apice della carriera che seppe calarsi perfettamente nell’abito dimesso dell’impiegato ministeriale romano. La pellicola, presentata in concorso al 30° Festival di Cannes, ottenne tre David di Donatello e quattro Nastri d’argento.
L’autore della sceneggiatura del film La vita è bella (candidato all’Oscar nel 1999 con Roberto Benigni) in questo romanzo di poco più di cento pagine dimostra di aver assimilato le lezioni del suo giovane professore di lettere della scuola media di Ciampino. C’era stoffa nei temi dello studente Cerami e Pier Paolo Pasolini l’aveva intuito fin da subito. Era stato lo stesso PPP a segnalare l’esistenza del dattiloscritto del suo ex allievo prediletto, ritratto di una Roma non più bonaria ma feroce e truce, in un articolo sul Tempo illustrato poi raccolto in Descrizioni di descrizioni. Pasolini non fece in tempo né a scrivere la presentazione, perché avrebbe voluto essere lui a tenere a battesimo il primo romanzo di un nuovo scrittore, né a vedere il libro pubblicato. Italo Calvino nella Nota alla prima edizione scrisse che la parabola del giustiziere Vivaldi obbligava il lettore “a fissare uno sguardo spietato su di un campione di società italiana quanto mai rappresentativo”. Cerami seppe subito colpire al cuore e alle nostre coscienze con la sua spietata, cruda ma vera lente d’ingrandimento puntata sulla bruttezza che regna nell’animo del nostro consorzio civile ma soprattutto “sulla tenace rabbia di vivere che persiste in fondo a un desolato svuotamento di ragioni vitali”. In fondo il cambiamento di Giovanni Vivaldi rappresenta la trasformazione politico e sociale dell’Italia negli anni Settanta, che non si fa più illusioni e che sa che la festa è terminata da un bel pezzo.
“Decise che più o meno gli restavano quindici anni da vivere, che non poteva escludere i cento anni e che comunque dieci erano matematici”.
Un borghese piccolo piccolo
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