Tornare a vivere. Le vicende di un sopravvissuto a Cefalonia, dalla chiamata alle armi alla Liberazione
- Autore: Elisa Castellina
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2021
Primo Reggimento artiglieria contraerea della Divisione Acqui di Casale Monferrato, l’unità di fanteria italiana che a Cefalonia, nel settembre 1943, perse quasi diecimila uomini nei combattimenti contro i tedeschi e nelle rappresaglie seguenti, per avere opposto resistenza all’ex alleato. I numeri dei caduti sono quelli indicati da uno dei duemila superstiti, Domenico Pavetto, anziano reduce piemontese, arruolato in quel reparto ottant’anni fa. Dopo decenni di riservatezza e silenzio, ha finalmente accettato di parlare con la giornalista piemontese Elisa Castellina della sua esperienza sull’isola greca e nei lager tedeschi. Dai colloqui è nato il libro biografico Tornare a vivere. Le vicende di un sopravvissuto a Cefalonia, dalla chiamata alle armi alla Liberazione, pubblicato dall’Editrice Tipografia Baima & Ronchetti nell’estate 2021 (140 pagine).
Solo alla fine del 2015, la cronista e scrittrice di Foglizzo (Torino) ha appreso dell’esistenza di un ex soldato e internato canavesano nei campi germanici. Lo ha visto ricevere una medaglia commemorativa del Ministero della Difesa, per avere concorso alla Resistenza antifascista non accettando di collaborare coi nazisti. Ha sopportato fino alla fine della guerra la durissima detenzione degli internati militari italiani nei campi di concentramento, gli dopo l’8 settembre 1943. Agli IMI non erano riconosciuti i diritti dei prigionieri di guerra, perché secondo Hitler l’Italia aveva tradito l’alleanza con la Germania. Alla liberazione, Domenico pesava solo quarantacinque chili e molti altri non ce l’avevano fatta.
Dalla cerimonia sono nati i colloqui tra la giovane cronista e l’ex combattente. Così, settantasei anni dopo i fatti, “Pavetto ci ha messo a parte del suo segreto e consegna alla storia la ’sua’ storia”, di cui non ha parlato subito per riservatezza e pudore, osserva nella prefazione Giuseppe Busso, presidente dell’università della terza età di Chivasso.
“Ho combattuto la guerra di Cefalonia”: anche se libri e documentari ne hanno parlato, Domenico ha deciso di rendere nota la sua testimonianza per comunicare “cosa si prova realmente a combattere”. Non solo le azioni, gli episodi, gli scontri, anche il dolore, lo sconforto, la pietà, la paura, i sentimenti che si provano di fronte a migliaia di compagni sacrificati. E poi la vita e la morte in un campo di concentramento, ammesso “che di vita si possa parlare”, fame, freddo, mancanza d’igiene, sempre ricordate con intensità, oltre agli “strascichi che la guerra comporta, nel corpo e nell’anima”. Li ha superati grazie all’affetto dei suoi cari: “la guerra, credetemi, è una cosa davvero brutta”.
Nato nel 1923 nel Canavese, operaio Olivetti, teneramente legato ad Anna (che lo aspetterà), è stato chiamato alle armi a settembre del 1942 nella Divisione Acqui e ha raggiunto l’isola greca il 2 gennaio 1943, entrando a far parte dell’armata sagapò ("ti voglio bene"), come i greci chiamavano gli italiani.
Dopo una serena occupazione delle Ionie, all’armistizio dell’8 settembre con gli angloamericani, la gioia per la “guerra finita” durò pochissimo. I tedeschi non accettarono l’uscita dell’Italia dal conflitto. Pur nettamente di meno ma meglio equipaggiati, si mostrarono chiaramente decisi a reagire con forza e avviarono trattative tra i comandanti — generale Gandin e tenente colonnello Barge — per prendere tempo e fare affluire altre truppe. Ma gli ufficiali inferiori e i soldati italiani scelsero di non cedere le armi e aprirono il fuoco, per ostacolare lo sbarco di rinforzi germanici. Combatterono coraggiosamente, commisero errori tattici, abbandonarono posizioni difendibili, mentre mancavano del tutto rifornimenti, da Brindisi e dagli inglesi.
I tedeschi ebbero la meglio e l’ordine di Hitler risultò tragicamente chiaro: eliminare i ribelli. Migliaia di soldati vennero fucilati e quasi tutti gli ufficiali, anche il gen. Gandin, di cui non sono mai stati ritrovati i resti. I pochi risparmiati, per circostanze anche casuali, subirono la deportazione nell’Europa centrale occupata dai nazisti.
Sopravvissuto ai combattenti e alle esecuzioni dopo la resistenza alla Wehrmacht, Domenico venne deportato in carri bestiame a Monaco, nella Germania meridionale e ha sopportato stenti, denutrizione e percosse dei kapò fino all’arrivo delle truppe americane in Baviera, il 2 maggio 1945. Ricoverato a lungo per rimettersi dalle malattie e dalla debilitazione, è rientrato in Italia dal Brennero in estate, irriconoscibile anche per i suoi genitori.
Diciannove mesi da internato militare, senza nessun diritto della Convenzione di Ginevra a tutela dei prigionieri. Era stato uno stuck, un “pezzo”, come gli ebrei e i deportati nei campi di sterminio: destinato al lavoro coatto, sottoalimentato, destinato allo sfinimento e alla morte.
Per opportunità politiche nei confronti della Germania federale, l’Italia repubblicana ha lasciato passare molti decenni prima di riconoscere la resistenza dei nostri IMI e le stesse vicende di Cefalonia, Corfù e delle isole greche. Si volevano evitare contrasti con un importante Stato occidentale da attrarre nello schieramento NATO, in funzione antisovietica.
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