Sylvia Plath compose la poesia Waking in Winter, tradotta in italiano come Svegliarsi in inverno, nel 1960 dalla stanza dell’ospedale psichiatrico in cui era ricoverata. Svegliandosi da un lungo sonno, probabilmente causato dai farmaci, la poetessa si ritrovò a osservare il paesaggio invernale al di fuori delle grandi vetrate.
Una nevicata improvvisa aveva imbiancato i rami degli alberi e la visione che si presentava davanti agli occhi della Plath possedeva un’atmosfera spettrale. L’inverno che ghiacciava le strade sembrava riflettere nel profondo il suo stato d’animo. Il gelo esteriore rispecchiava il ghiaccio inscalfibile del suo cuore che ormai rinnegava qualsiasi emozione o battito vitale.
Plath osservò così a lungo quel paesaggio al di fuori della finestra dell’ospedale da trasformarlo in una sorta di quadro interiore, di visione mentale. Ne risulta una poesia che sembra assumere i contorni deliranti di un incubo in cui gli elementi e gli oggetti si deformano sino a significare qualcosa d’altro e dalla quale si cerca di fuggire come da un cattivo presagio. L’alba dell’inverno ha un sapore di stagno, pare di sentirla in bocca con il retrogusto amaro di una medicina. Leggendo ci sovrapponiamo allo sguardo di Sylvia e ci pare di vedere il bianco ancora più spoglio della camera d’ospedale nella quale si rifletteva il giallo impietoso delle luci troppo forti che sembravano vivisezionare i corpi come su un tavolo operatorio.
L’inverno in cui Sylvia Plath si svegliò quel giorno era la gabbia della sua mente che ostinatamente tentava di sabotarla mostrando il riflesso terribile e impietoso del genio.
La poesia Svegliarsi in inverno (Waking in Winter, Ndr) è tratta dalla raccolta Tutte le poesie (Mondadori, 2013, a cura di Anna Ravano).
Scopriamone testo, analisi e commento.
Svegliarsi in inverno di Sylvia Plath: testo
Il cielo è di stagno, ne sento il gusto in bocca: stagno vero.
L’alba d’inverno è colore del metallo,
gli alberi rigidi come nervi bruciati.Ho sognato per tutta la notte
distruzione, annichilimento –
gole tagliate in catene di montaggio,
e io e te che ce ne andavamo lenti
sull’automobile grigia, sorseggiando
il verde veleno dei prati muti,
le lapidi di legno, non un suono,
su pneumatici di gomma
diretti alla stazione balneare.Che echi dai balconi! E il sole, come
illuminava i teschi, le ossa sfatte
di fronte al panorama. Spazio! Spazio!
Le lenzuola tiravano gli ultimi,
le gambe del letto si scioglievano
in terribili posture, e le infermiere –
ogni infermiera bendava la sua anima
a una ferita, e scompariva.Gli ospiti mortali non erano rimasti
soddisfatti delle stanze, dei sorrisi,
delle piante di plastica o del mare
che quietava i loro sensi scorticati
come Mamma Morfina.
Svegliarsi in inverno di Sylvia Plath: testo originale
I can taste the tin of the sky – the real tin thing.
Winter dawn is the color of metal,
the trees stiffen into place like burnt nerves.
All night I have dreamed of destruction, annihilations –
an assembly-line of cut throats, and you and I
inching off in the gray Chevrolet, drinking the green
poison of stilled lawns, the little clapboard gravestones,
Noiseless, on rubber wheels, on the way to the sea resort.How the balconies echoed! How the sun lit up
the skulls, the unbuckled bones facing the view!
Space! Space! The bed linen was giving out entirely.
Cot legs melted in terrible attitudes, and the nurses –each nurse patched her soul to a wound and disappeared.
The deathly guests had not been satisfied
with the rooms, or the smiles, or the beautiful rubber plants,
or the sea, hushing their peeled sense like Old Mother Morphia.
Svegliarsi in inverno di Sylvia Plath: analisi e commento
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Nei primi versi di Svegliarsi in inverno il cielo è raffigurato duro e freddo come un pezzo di metallo e gli alberi sono presentati al lettore nella loro rigidità che li fa assomigliare a "nervi bruciati" (dall’elettroshock? è lecito pensarlo).
Le prime righe sembrano fornirci la rappresentazione più perfetta di una condizione interiore più che interiore. Il paesaggio invernale che esibisce i suoi nervi scoperti sembra la radiografia impietosa di un corpo sottoposto a terapie brutali. L’inverno diventa un essere antropomorfo.
Dal quarto verso in poi la poesia sembra trascinarci nel vortice di un sogno allucinato che ben presto assume i connotati di un incubo. Il sogno, dice Plath come per un necessario preavviso al lettore, parlava infatti di “distruzione” e di “annichilimento”.
Racconta di aver sognato una “catena di montaggio”: il riferimento è all’automazione tecnologica e alla coerenza, ma Plath vi contrappone l’immagine violenta, sinistra delle "gole tagliate", come se la catena si inceppasse, avesse un cortocircuito.
D’improvviso fa capolino l’estate: la poetessa e il suo compagno (probabilmente il riferimento è proprio a Ted Hughes, marito della Plath) stanno viaggiando in automobile verso un resort per le vacanze. Ma nulla è come appare. Il paesaggio che attraversano appare tetro e cupo come un presagio di morte: ci sono bare sul terreno e prati verde veleno, eppure i due sono diretti verso un luogo gioioso: la stazione balneare.
Il riferimento alle bare e ai prati avvelenati può essere letto come una metafora: rappresentano in verità le case claustrofobiche dei quartieri di periferia della provincia inglese dove l’omologazione sociale è soffocante.
Quando finalmente i due viaggiatori giungono all’albergo, Plath descrive i residenti come teschi che si riflettono al sole. Ben presto il resort sembra divenire l’immagine ribaltata, il parallelismo dell’ospedale psichiatrico in cui è ora ricoverata. La visione onirica si sporca di realtà, mostrandoci comunque una verità dilatata e distorta.
Gli ospiti del resort sono tutti diversi tra loro, ma li unisce una comune pena: neppure la visione del mare riesce a rasserenarli. Delle infermiere insensibili, apparentemente prive di emozioni, sono lì per occuparsi di loro.
La poesia diventa quindi un processo di continuo disvelamento. Infine questo resort per vacanze ci appare come un ospedale o un centro deputato alla guarigione, nella quale Sylvia fu portata probabilmente proprio dal marito con un viaggio in automobile (forse vi era stata trascinata con l’inganno?).
“Svegliarsi in inverno”
Nelle righe finali di Svegliarsi in inverno tuttavia appare chiaro che le persone non sono curate da medicine reali. Il loro dolore - che appare più come un malessere psicologico, una depressione - viene messo a tacere da copiose dosi di morfina. Le persone non vengono curate, ma sedate, indotte a un sonno profondo possibilmente senza sogni. Nell’intorpidimento generale - che riflette il biancore immacolato del paesaggio invernale - gli ospiti del resort si abbandonano con piacere al sollievo promesso dalla morfina.
Nella conclusione si fanno cullare come dei bimbi tra le braccia della propria madre surrogata. Il verbo “cullare” sembra rimandare non solo al moto lento della culla, ma anche al moto ondivago del mare che infatti gli ospiti scorgono il lontananza come un presagio di tranquillità.
Da notare che i sensi nel finale sono definiti “scorticati”, come i nervi, il che dà l’idea profonda del tormento. L’elogio a “Mamma Morfina”, la medicina viene personificata addirittura in una figura materna, sembra prefigurare il sonno totale e rasserenante della morte che, del resto, traspare in ogni riga di questa poesia.
Possiamo leggere Svegliarsi in inverno come la visione di una donna malata, chiusa nella stanza di un ospedale-prigione il cui scopo non era quello di curarla ma tenerla chiusa nella gabbia di una cura palliativa.
L’inverno che Sylvia Plath osserva fuori dalla finestra in realtà è dentro di lei, come un segreto. Forse lo aveva visto semplicemente chiudendo gli occhi e scrutando nel buio.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Svegliarsi in inverno”: il gelo dell’anima nella poesia di Sylvia Plath
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