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Aforismi e frasi celebri

Rompere i confini: gli aforismi di Oscar Wilde

Oscar Wilde è stato un uomo anticonvenzionale, capace di sfidare i pregiudizi e l'opinione corrente, di immolarsi per amore con la coerenza dei grandi uomini. Tutto questo traspare dai suoi aforismi.

Graziella Atzori Pubblicato il 07-10-2020

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Rompere i confini: gli aforismi di Oscar Wilde

La condanna a due anni di carcere duro ai lavori forzati per essere omosessuale oggi è considerata una barbarie e una tortura, eppure nel 1895 non era così. Sappiamo che a Oscar Wilde toccò questo destino nell’Inghilterra vittoriana. Egli perse la dignità, gli affetti, il ruolo sociale, il patrimonio. Ciò, insieme ai suoi versi, alle commedie e ai suoi scritti epigrammatici lo restituisce al sentire comune in una luce eroica. Tutto di lui è stato ed è pregevole. La sua figura anticonvenzionale, capace di sfidare i pregiudizi e l’opinione corrente, di rompere i limiti, di immolarsi per amore con la coerenza dei grandi uomini e dei grandi artisti lo rende unico.

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Newton Compton Editori ha pubblicato i suoi Aforismi (p. 127, 2013) a cura di Riccardo Reim, che scrive anche l’introduzione e la postfazione. Il libro contiene anche un articolo di James Joyce e ciò rende il volumetto ancora più interessante e appetibile.

Rompere i confini, sia in senso simbolico che letterale, nel mondo classico era considerato un gesto delittuoso, che poneva la persona che aveva osato tanto al di fuori della comunità; essa era considerata intoccabile, non punibile secondo le leggi umane ed era soggetta al volere degli dei. Separato ovvero “sacer” (sacro). Anche in ebraico la parola “kadosh” (sacro) ha lo stesso significato di “separato”, un essere a parte, con le caratteristiche del “tremendo”.

Anche gli aforismi di Wilde hanno l’impronta del sacro secondo tale accezione. Stupiscono, sono ancora di una novità dirompente, toccano e scardinando i nostri limiti. Mettono in discussione tutti i puntelli necessari a farci sentire parte di uno “status” sociale, a conquistare approvazione e consenso.
Ma la felicità, la fedeltà all’anima non sono legati a valori del tempo, o alle convenzioni. Tanto vuole esprimere l’autore con le sue sentenze lapidarie, a volte meditabonde, spesso ironiche o corrosive. Queste non si susseguono secondo gruppi tematici, ma costituiscono uno zibaldone di pensieri scritti a seconda dell’estro dell’artista; certamente l’amore è il filo rosso che le collega dalla prima all’ultima. Le prime recitano:

"Il mistero dell’amore è più grande che il mistero della morte."
“Le donne sono fatte per essere amate, non per essere comprese.”

Tutti aneliamo alla comprensione, ma qui Wilde probabilmente intende dire che l’amore è così vasto e insondabile che supera di gran lunga gli sforzi della ragione per raggiungere la conoscenza.
Considerato amorale e immorale, il più grande esteta e “dandy” di fine Ottocento annota:

"L’uomo può sopportare le disgrazie, esse sono accidentali e vengono dal di fuori: ma soffrire per le proprie colpe, ecco l’aculeo della vita."

L’interiorità ha le sue leggi, a cui nessuno può sottrarsi.
Riguardo alla Bellezza, e merita scrivere la parola con la maiuscola, Wilde coltiva la visione dei romantici, che è poi quella platonica, Bellezza archetipo, come specchio della Verità eterna:

"La Bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana. Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono una all’altra, ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed un possesso per tutta l’eternità."

La frase echeggia un verso di Keats:

"Una cosa bella è una gioia per sempre"

La prefazione di James Joyce

James Joyce, nell’articolo riportato, scritto a Trieste nel 1909 per il quotidiano locale “Il Piccolo della sera”, definisce Wilde “un capro espiatorio”. E tale fu. Spiace però leggere anche che J.J. definisca la predilezione erotica di Wilde “triste mania” e spiace che sottolinei lo sperpero e le spese eccentriche dell’esteta, tanto che la moglie non ebbe i soldi per comprarsi un paio di scarpe. Spiace perché Joyce stesso sperperava i denari guadagnati da sua moglie Nora come lavandaia nei casini e nelle osterie triestine. Tanto va ricordato per amor di giustizia, senza alcun giudizio morale. Sembra inoltre che per Joyce il ritorno al “cristianesimo gnostico” di Wilde sia stato deprecabile. Nella sua critica si nota una sottile disapprovazione, lì dove Joyce scrive:

"Piegò il ginocchio, essendo compassionevole e triste chi fu un giorno cantore della divinità della gioia."

Il dramma è la grandezza di Oscar Wilde, il suo cristianesimo incarna la vittima che redime tutti ed è nobile e magnifico.
Il libro nell’ultima pagina saluta il lettore con questa immagine incantevole:

"Gesù disse alla donna còlta in adulterio che il suo peccato era cancellato; non già perché essa ne fosse pentita, ma perché l’amore di lei fu bellissimo ed intenso."

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