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Recensioni di libri

Mai visto il mare di Lucia Berardi

Tipografia Editrice Baima & Ronchetti, 2020 – Romanzo d’esordio di una piemontese che sembra un’autrice veterana. Dalla fine degli anni ’50, la storia dolce-amara tutt’altro che negativa di due vite, una ragazza e un ragazzo.

Felice Laudadio
Felice Laudadio Pubblicato il 21-03-2021
Mai visto il mare

Mai visto il mare

  • Autore: Lucia Berardi
  • Genere: Storie vere
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Anno di pubblicazione: 2020

“Venturina”, una parola che oggi non dice niente, lontano dalle Alte Langhe, lassù in Piemonte ma è centrale, fondamentale, in un romanzo che si beve come un bicchiere d’acqua fresca d’estate, che scorre via rapido, mai scontato, mai banale, sempre capace d’insegnare qualcosa di un passato non lontano dai nostri sentimenti, affetti e legami che invece restano quelli di sempre. È un’opera riuscita Mai visto il mare, pubblicato da Lucia Berardi a ottobre 2020 nella collana Biblioteca degli scrittori piemontesi, della Tipografia Editrice Baima & Ronchetti di Castellamonte, nel Torinese (290 pagine, 15 euro).

“Venturina” conservava un significato ancora nel dopoguerra, in un luogo e in un’epoca allo stesso tempo vicini e lontani. Stava per trovatella, assegnata a una famiglia in cambio di un sussidio pubblico di mantenimento, non adottata legalmente né affidata formalmente. Una pratica fondata più sull’interesse che sull’affetto, spazzata via dal nuovo diritto di famiglia, portato dal vento del ’68.
“Venturina” è Mara, che di cognome non fa Zanotti, come ha scritto sul quaderno a scuola, tanto che la giovane maestra Viotti l’ha benevolmente corretta. Negli anni Cinquanta è stata prelevata dai coniugi Giuspo e Perina Zanotti dall’orfanotrofio in cui era stata abbandonata appena nata. L’avevano cresciuta bene delle suore che sembrano angeli in confronto a quelle di tanti romanzi d’appendice o anche classici. Ma non figura la parola “amore” nel progetto degli Zanò, come vengono chiamati dai compaesani nelle Langhe, dove vivono nella fattoria di famiglia, la Brusà (parte della cascina era andata a fuoco decenni prima). Contano sul sussidio e sulla collaborazione che la ragazza potrà dare crescendo, badando agli animali e alle faccende domestiche.

Sono fatti col fil di ferro gli Zanò, niente cuore e poche parole. L’unico figlio, Vincenzo, è tutto il contrario invece. Si lega subito alla “sorellina”, le confida tutti i pensieri, la difende dagli altri, anche se non serve, perché a scuola Mara è volenterosa, studiosa e si fa benvolere da tutti, piccoli e grandi, soprattutto dalla maestrina Luisa, che stravede per lei ma nasconde un gran magone segreto.

Apprendiamo tutto un po’ per volta, perché le fasi delle vite dei due ragazzi protagonisti - poi un uomo e una donna, ciascuno ben realizzato a modo suo, con tanto olio di gomito in ogni occasione - vengono proposte saltando da Mara a Vincenzo e da un tempo all’altro, un anno prima, dieci anni dopo. Il che non guasta affatto, non condiziona la lettura, aggiunge anzi curiosità e interesse, maneggiato perfettamente da una scrittrice che pur esordiente si rivela molto matura e capace di una narrativa evoluta.
C’è da chiedersi se per una ragazza di Torino come lei, coetanea dei due protagonisti - nati pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale - questa storia possa rappresentare una specie di autobiografia. Lucia stessa ha cancellato ogni dubbio nelle interviste e presentazioni: Mara non è lei, quelle vicende non le ha vissute, sebbene ci sia molto della Berardi specie nei luoghi e in qualche abitudine colta dal passato. Un esempio è la cascina in cui si svolge parte della storia: la mamma di Lucia era stata bambina in una casa simile nelle Alte Langhe.
Ma solo chi ha osservato e disapprovato da bambino l’atteggiamento crudele della società nei confronti dei “figli di nessuno” può avvertire il peso dello stigma collettivo ingiustificato contro quegli innocenti. Trattandoli come il frutto di una relazione clandestina, comunità cattoliche osservanti e ignoranti si macchiavano di un comportamento cinico oggi inaccettabile.
Che dire poi di un bambino affetto da labiopalatoschisi, il “labbro leporino”? Prima degli sviluppi della chirurgia plastica, era una deformità incurabile del viso che rendeva i piccoli pazienti dei “soggetti da Cottolengo”, come dice brutalmente la Perina, gente da ricoverare e far sparire. Il bambino di Mara, Matteo, nasce con quella malformazione dell’arcata palatale.

Vincenzo (Censin per i genitori, ma lui odia il nomignolo e preferisce un fumettistico Vinx) torna dal servizio militare nel 1967, all’inizio del romanzo e non trova più la Mara nella Brusà. Si è fidanzata a Torino, gli dice la mamma. Aggiunge che non avrebbero voluto lasciarla andare, ma lui è ricco, le può assicurare un avvenire sicuro, la farà anche studiare. Per il suo bene, a malincuore, hanno dovuto accettare.
Vincenzo non riesce a sapere nient’altro, ma conosce bene i genitori e sa che non la raccontano giusta. Il ragazzo è intelligente e ostinato, una traccia può trovarla attraverso la maestra. A Torino i Viotti sono solo una trentina. Alla terza telefonata trova la signora Luisa, che si dice sorpresa dal matrimonio di Mara. Sostiene di non vederla da un pezzo e di non sapere niente di lei. Chiude in fretta la comunicazione, facendo gli auguri alla sorella.
Per Vincenzo non suona sincera, è convinto che gli abbia nascosto qualcosa: è stata sempre molto attenta a Mara, aveva dimostrato di volerle particolarmente bene. Deve assolutamente stare dietro ai Viotti se vuole sapere. Si apposta sotto casa…

Vinx lavorerà in Francia come bracciante e il padrone parlerà bene di lui. Sarà cuoco a Marsiglia, rimpianto quando deciderà di andare per mare. Il capitano Pietro gli vorrà un gran bene. Disegna molto bene, è un dono.
Mara andrà avanti con coraggio, lavorerà in fabbrica, crescerà il figlio, sposerà il femminismo. Le due vite si ritroveranno?

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Mai visto il mare

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