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La valigia dell’emigrante di Gianni Rodari: una filastrocca per scoprire lo "straniero"

Gianni Rodari dedicò diverse poesie e filastrocche al delicato tema dell'emigrazione. Con parole semplici e commoventi riuscì a spiegare a grandi e piccini cosa significhi sentirsi "straniero" in una nuova realtà e in un paese sconosciuto. Scopriamo testo, analisi e commento della filastrocca “La valigia dell'emigrante”.

Alice Figini
Alice Figini Pubblicato il 21-11-2022
La valigia dell'emigrante di Gianni Rodari: una filastrocca per scoprire lo "straniero"

L’emigrazione è uno dei temi caldi della nostra contemporaneità. Gianni Rodari, con assoluta preveggenza, ne aveva già scritto nel lontano 1952 per sensibilizzare i suoi piccoli scolari sul tema dello “straniero” in una vivace - ma in fondo commovente - filastrocca intitolata La valigia dell’emigrante.
Oggi, mentre continuano inarrestabili gli sbarchi sulle coste al largo di Lampedusa e, con essi, anche i drammatici naufragi, l’emigrazione periodicamente torna a essere argomento di dibattito. Ci stiamo abituando a fare la conta dei morti di questo olocausto invisibile, senza più considerare il contesto storico e politico che invece ha un’importanza determinante. L’emigrazione sta diventando una guerra senza soldati, una carneficina silente, che tuttavia non ha davvero fine con lo sbarco dei migranti sulle coste italiane, ma si prolunga ben oltre. Perché questi uomini e queste donne giungendo in Italia non trovano la salvezza né la fatidica “Terra promessa” tanto agognata, ma diventano automaticamente degli “stranieri” e dalla maggior parte delle persone vengono guardati con diffidenza.
Attorno alla figura dello “straniero” rischia così di intessersi una narrazione sbagliata o falsata, carica di pregiudizio, che minaccia di trasformarlo in “nemico”o, in ogni caso, in una minaccia alla nostra sicurezza.

Per spiegare l’emigrazione ai bambini è invece fondamentale umanizzare lo straniero, mostrarne le emozioni e i sentimenti, far sentire il peso - in fin dei conti leggero, eppure tremendamente gravoso, della sua valigia.

È esattamente ciò che fa Gianni Rodari attraverso la filastrocca La valigia dell’emigrante , tratta dalla raccolta Il treno delle filastrocche (Edizioni di Cultura sociale, Roma, 1952).

Scopriamone testo, analisi e commento.

La valigia dell’emigrante di Gianni Rodari: testo

Non è grossa, non è pesante
la valigia dell’emigrante…
C’è un po’ di terra del mio villaggio
per non restare solo in viaggio…
Un vestito, un pane, un frutto,
e questo è tutto.
Ma il cuore no, non l’ho portato:
nella valigia non c’è entrato.
Troppa pena aveva a partire,
oltre il mare non vuol venire.
Lui resta, fedele come un cane,
nella terra che non mi dà pane:
un piccolo campo, proprio lassù…
ma il treno corre: non si vede più.

La valigia dell’emigrante di Gianni Rodari: analisi e commento

Nella sua filastrocca dedicata all’emigrazione Gianni Rodari fa la mossa più intelligente ed empatica che si possa fare in questi casi, per spiegare un concetto astruso o sconosciuto: adotta il punto di vista del migrante, invitando quindi i bambini - per natura focalizzati su sé stessi - a mettersi nei panni dell’“altro da sé”. Rodari attraverso le parole pratica quindi un “esercizio di empatia”.
Dopo aver variato il punto di vista - prestando la propria voce allo straniero - Rodari si focalizza su ciò che si può vedere e toccare, su un oggetto pratica di cui ogni migrante è munito: la valigia. Ben poca cosa, in realtà, osserva il Maestro-poeta: un vestito, un pane, un frutto e null’altro. La valigia del migrante è leggera eppure pesante, perché è carica di malinconia: vi è infatti posata la terra del villaggio natale, un piccolo pezzetto di casa da portare con sé in luoghi lontani e sconosciuti.

Infine Rodari dà corpo alla nostalgia attraverso un’immagine definita dalla forte valenza simbolica: il loro cuore i migranti l’hanno lasciato nella loro terra, perché “aveva troppa pena di partire”. Viene dunque messo in evidenza il contrasto tra sentimento e razionalità, e infine mostrata la “scelta obbligata” che costringe gli emigranti a partire, a mettersi in viaggio per non patire più la fame (o la guerra). Con una rima all’apparenza banale e non perfetta “cane/fame” Rodari mette in luce la necessità assoluta della partenza: il cuore resta fedele, come un cane, alla terra che però non dà più pane.
L’emigrante descritto da Rodari è un uomo disperato e non speranzoso, un uomo che agisce perché costretto dalle circostanze. Persino nelle vivaci parole di una filastrocca la sua condizione appare straziante.

Nella conclusione l’immagine consolatoria del campo che per l’uomo rappresenta “casa” svanisce nella corsa sfrenata del treno. Mediante una scena quasi cinematografica (il paesaggio che muta dal finestrino di un treno) Rodari ci mostra la condizione dello straniero: un uomo che si porta la propria casa nel cuore e si trova solo, estraneo, sperduto in una terra che non lo accetta.

Attraverso le sue parole, forse, Gianni Rodari voleva far rivivere la lunga storia tutta italiana della migrazione. C’è stato un tempo, non poi molto lontano, in cui i migranti eravamo noi. Noi italiani a partire alla volta della “Terra promessa” a bordo di un treno, di una nave o di un piroscafo. Lo dimostrano lettere, immagini sbiadite, testi di canzoni, che ancora riportano quel mai sopito grido: “Merica! Merica!” di speranza o forse di disperazione, non si sa.
La figura dello straniero è sempre una condizione di confine, di non appartenenza, in perenne bilico tra il partire e il restare. Quella raccontata dai migranti è una storia di fughe, di tentativi, di integrazione e altrettanti respingimenti; ma soprattutto è il canto triste della nostalgia per la terra in cui ancora batte, inascoltato, il loro cuore.
Ecco, Gianni Rodari ci invita a familiarizzare con quel cuore, a sentirlo nostro.

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