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Recensioni di libri

La treccia della nonna di Alina Bronsky

Keller, 2022 - Un romanzo composto da brevi e incalzanti capitoli, la cui densità si mescola fin da subito a una lingua aguzza e consapevole, facendo della tenerezza del sarcasmo le sue due armi migliori.

Eva Luna Mascolino
Eva Luna Mascolino Pubblicato il 18-03-2022
La treccia della nonna

La treccia della nonna

  • Autore: Alina Bronsky
  • Categoria: Narrativa Straniera
  • Anno di pubblicazione: 2022

Che a questo mondo capitino episodi più bizzarri della migliore letteratura è un dato di fatto al quale prima o poi assistiamo tutti nella vita, indirettamente o meno. Ma che si riescano a scrivere romanzi in grado di mantenerne la freschezza e il cipiglio, le contraddizioni e la tragicomicità è ben più raro, perché un approccio simile richiede una capacità mimetica e al tempo stesso descrittiva fuori dal comune: portare sulla scena personaggi sgangherati è un rischio, specialmente se infrangono la morale comune in centinaia di modi diversi e naturalissimi. Figuriamoci poi renderli protagonisti, sottrarli sapientemente a qualunque giudizio, utilizzare un’ironia appuntita e un’abbondante dose di onestà nel riportarne i fatti, i pensieri, le parole.

A perseguire questo obiettivo con straordinaria maestria, e a raggiungerlo in poco più di duecento pagine, è stata da poco Alina Bronsky, scrittrice tedesca di origine russa che era già nota in Italia per un’amara e toccante opera narrativa intitolata L’ultimo amore di Baba Dunja (Keller, traduzione di Scilla Forti), e che ora è tornata in libreria con La treccia della nonna, edito sempre da Keller e tradotto ancora una volta dal tedesco da Scilla Forti.

Si tratta di un romanzo composto da brevi e incalzanti capitoli, la cui densità si mescola fin da subito a una lingua aguzza e consapevole, facendo della tenerezza del sarcasmo le sue due armi migliori. Di una storia familiare e al tempo stesso interculturale, che ha alle spalle l’Unione Sovietica e si sviluppa però in Germania, in uno spaccato di mondo sempre troppo complesso e sempre troppo estraneo per essere abbracciato come si deve, voluto bene profondamente, accettato senza paranoie di sorta. E soprattutto, anzi forse più di tutto, di una vicenda sempre in bilico fra il comico e l’assurdo, fra il tragico e il meraviglioso.

Se la si volesse ripercorrere in breve, bisognerebbe in primis nominare la nonna del titolo, quella che da giovane faceva la ballerina e da più grande si è ritrovata a barattare le sue speranze di una vita migliore per una fuga verso l’Occidente, ovvero verso una residenza per rifugiati dove l’unica prospettiva è quella di mantenere salde le redini della quotidianità, delle regole da seguire, delle malattie da scongiurare. Con lei abita il marito Čingiz, un uomo pieno di convinzioni e rimasto con poche parole da formulare, a cui davanti al crollo di ogni aspettativa non resta che un estremo gesto di liberazione e di riscatto, non si sa neppure bene da cosa: innamorarsi di un’altra e andarsene, almeno per un po’. Almeno quanto basta per capire a chi voglia appartenere, a quali ideali, a quali ricordi, a quale famiglia.

Infine, come in tutte le storie di nonni che si rispettino, c’è Max, un nipote fuori dalle righe che abitando con i due anziani ne assimila l’insolita visione del mondo, i microgesti, le grandi domande senza risposta. A differenza loro, però, Max sa bene come vuole crescere, verso dove vuole dirigersi, che prezzo va pagato per rendersi autonomo e per aiutare le persone che gli stanno accanto. Ed è quindi grazie (anche) a lui che dal tradimento e dalla rabbia si passa a un’impensabile gamma di reazioni, di note musicali, di telefonate, di ripicche. È grazie a lui se nel romanzo si gira intorno al perdono, ci si infila in curiose sottotrame, si studiano da vicino le mutazioni dell’animo umano.

Ed è grazie alla sua prospettiva, non da ultimo, se possiamo osservare ogni fatto di sbieco, immaginandoci al di là o al di sopra di certe beghe per poi realizzare una pagina dopo l’altra che nessuno di noi è davvero al riparo dalla follia, dall’esasperazione, dal caos. Che la necessità di raccattare i cocci ridendoci su non risparmia nemmeno chi ha visto andare in frantumi tutti i propri vasi, e che proprio sguazzando in una pozza d’acqua si può forse evitare di scivolare fra i paradossi dell’esistenza. Bronsky sembra suggerircelo tra le righe con grazia, in modi solo accennati, e tra un dialogo sferzante e un altro delicatissimo ci tiene giusto a ricordarci che “non possiamo piantare lillà dappertutto”, e che qualsiasi cosa significhino per noi i lillà in questione sarà meglio accettarlo quanto prima, con una bella scrollata di spalle e un altro campo verso cui credere di andare.

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La treccia della nonna

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