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Intervista al critico letterario Domenico Calcaterra

Da maggio 2021, il critico letterario Domenico Calcaterra è in libreria con L'anno del bradipo. Diario di un critico di provincia, pubblicato dalla casa editrice Inschibboleth. Vincenzo Mazzaccaro l'ha intervistato per Sololibri.

Vincenzo Mazzaccaro
Vincenzo Mazzaccaro Pubblicato il 09-02-2022
Intervista al critico letterario Domenico Calcaterra

Domenico Calcaterra (1974), insegnante e critico letterario, collabora con diverse riviste tra cui «L’Indice dei Libri» e «Succedeoggi». Tra le sue pubblicazioni: Vincenzo Consolo. Le parole, il tono, la cadenza (Prova d’Autore, 2007), Il secondo Calvino. Un discorso sul metodo (Mimesis, 2014), Niente stoffe leggere (Meligrana, 2014), Lo scrittore verticale. Conversazione con Vincenzo Consolo (Medusa, 2014), Perriera sentimentale. L’umanesimo gentile di un eroe della mitezza (Algra, 2016). Con il volume collettaneo a sua cura Gli archi e gli strali. Foscolo inattuale (Aguaplano, 2021) ha cercato di rilanciare il dibattito attorno a un autore imprescindibile ma assai trascurato.

Da maggio 2021 è in libreria con L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia, pubblicato dalla casa editrice Inschibboleth.

Calcaterra ha risposto ad alcune domande di Vincenzo Mazzaccaro.

  • La ringrazio per la disponibilità. Le volevo chiedere come sono stati questi anni da Niente stoffe leggere a L'anno del bradipo da un punto di vista critico. Mi sembra che, oltre ad aver letto nuovi scrittori, sia rimasto fedele al suo "maestro" Vincenzo Consolo. È così?
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In questi dieci anni potrei dire che è cambiato tutto. Niente stoffe leggere è stato per me il congedo pressoché definitivo con il mondo degli studi accademici. Dopo Il secondo Calvino. Un discorso sul metodo (Mimesis, 2014), uno studio dal solido impianto accademico, mi sono sempre più dedicato a coltivare le forme brevi di intervento critico. Gli esiti di questo passaggio si trovano appunto in Niente stoffe leggere, in cui, accanto ad alcune figure per me di riferimento ho passato al setaccio tanta narrativa e saggistica italiana contemporanea di quegli anni. Non è un caso che a quell’esperienza abbia voluto indelebilmente associare il trompe-l’oeil di Perre Borrell del Caso Huyendo de la crìtica (1874), a segnalare una fuga, un’idiosincrasia per ciò che volevo con forza lasciarmi alle spalle per trovare la mia più congeniale collocazione come critico-scrittore. L’anno del bradipo (2021) mi piace considerarlo come la naturale oltranza di quel processo di scrittura innescatosi dieci anni orsono: un libro della maturità, sempre nel segno della predilezione per il frammento, la scheggia, le scritture cursorie, in cui prevalente è diventato il dato esperienziale e autobiografico. Vincenzo Consolo sta alla base del mio apprendistato con la letteratura.

  • Non c'è solo Vincenzo Consolo nel suo panorama letterario e, più che un critico di provincia, lei è un critico che dà importanza agli scrittori siciliani. A parte Consolo, lei ha scritto anche dello scrittore e regista Michele Perriera. Non è che L'anno del bradipo è un omaggio a Atti del bradipo di Perriera?

Il titolo è strettamente connesso alla stesura del libro; alla stratificazione delle scritture plurali in esso confluite; al modo, infine, che nel tempo ho scelto per interpretare il ruolo di critico-scrittore – lentezza, marginalità, estrema libertà. Soltanto a bocce ferme, a lavoro concluso, mi è sovvenuto che poteva leggersi anche come plausibile tributo alle pièces teatrali radunate nei perrieriani Atti del bradipo, in cui questo straordinario animale figura misteriosamente.

  • Mi sembra, invece, che di Leonardo Sciascia e poi di Andrea Camilleri si interessi meno, come se volesse dire che sono così famosi che non hanno bisogno di un critico di provincia, o sbaglio?

Di Camilleri apprezzo più i libri “unici” d’impianto storico, mentre sono stato sempre poco attratto dai brogli seriali legati al personaggio che ha fatto la fortuna dello scrittore e del suo editore. Effettivamente non ho mai sentito l’impulso di scriverne. Sciascia, invece, per quanto non possa considerarmi uno specialista, è un mio scrittore. Proprio lo scorso anno, per una conferenza organizzata da Ca’ Foscari (in occasione del centenario della nascita) mi sono divertito a rileggerlo quasi integralmente, avendo avuto a cuore di mostrare (e per questa via avvicinandolo a Calvino) l’impianto a trazione conoscitiva del corpus della sua opera. E poi, a leggere L’anno del bradipo, come non pensare, tra i possibili riferimenti, a Nero su nero (1979) di Leonardo Sciascia?...

  • Cosa intende Michele Perriera per «umanesimo gentile»? Si è molto parlato in questi anni di Covid che gli scrittori devono tornare ad essere primariamente degli umanisti, ma in realtà la gente legge sempre più noir di una violenza feroce, a volte ingiustificata. Nei giorni chiusi in casa si sono consumate ore per film horror o serie televisive poliziesche o meno che scavano sempre più a fondo nel cuore nero di uomini e donne. E l'umanesimo?
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Un umanesimo gentile è un umanesimo che non contempla la rivoluzione, che muove dal “troppo tardi”, che postula una pervicace mitezza; una rinascita etico-estetica capace di sopravanzare ogni stortura privata e pubblica... In tempi come i nostri di violenza e superficialità i primi ad avere deposto il sogno di un umanesimo “gentile” sono proprio gli insegnanti e gli scrittori. Per Michele l’umanesimo era una barca in mare che contemplava l’impossibile sogno di tenere insieme rinuncia e progetto futuro.

  • Con Internet la differenza tra critico di provincia o critico che vive nelle grandi città si è assottigliata. Le fonti non sono le stesse?

Non è un problema di fonti, semmai diverse rimangono le opportunità e i contesti. Internet ha non poco contribuito a complicare le cose: oggi, proprio nel mare magno della rete, prolificano recensori, opinionisti letterari, blogger, figure tutte che si sovrappongono, quando non si sostituiscono al critico. Da parte mia, imprimendo quel sottotitolo al libro, ho voluto rivendicare proprio una marginalità (geografica e culturale) come grado zero da cui prende avvio la necessità della scrittura.

  • Avevo già anticipato questa domanda con l'umanesimo di Perriera, ma lei come si spiega questa esplosione di interesse e di vendite dei libri di genere, dei noir o dei gialli con il proliferare di commissari, poliziotti, detective, avvocati?

Lungi da me l’idea di demonizzare la cosiddetta letteratura d’intrattenimento, così come lanciarmi in facili sociologismi. Tuttavia, se è vero che da sempre la letteratura di genere ha assolto il suo ruolo di pura evasione, è non meno evidente che il tipo di società veloce, iper-connessa, tecnocratica in cui viviamo ha veduto nel proliferare della narrativa di genere una consonante conseguenza. Ma ciò che ancor più mi allarma è il tasso parossistico di violenza che troviamo nelle narrazioni (sia filmiche che letterarie): la violenza come ostensione perenne, come sola grammatica per esperire la realtà odierna; innalzata a chiave d’accesso per la comprensione tout court delle cose… La lettura per me rimane invece un’esperienza decisiva, di personale agnizione. È questione di vita, proiezione autobiografica, fratellanza di destino: un meccanismo che difficilmente la letteratura di genere riesce a scatenare.

  • Come era di carattere Vincenzo Consolo? Quali erano gli argomenti che lo appassionavano? Cosa detestava dell'attualità?
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Erudito, allegro, testardo, divertente, tutto d’un pezzo, prendeva di petto persone e situazioni… Parimenti intransigente, verso gli altri e verso se stesso. A roderlo era il tarlo della storia e dell’impegno; la battaglia archeologica di una lingua oppositiva e di rottura, contro l’esperanto omologante e mercificante (in questo figlio del Pasolini di Nuove questioni linguistiche) della società consumistica e “telestupefatta”. Dell’attualità aborriva la sciatteria culturale e politica (quella stessa che oggi è a tal punto dilagante da non fare più notizia). Amatissimo dagli studiosi, poco letto da critici e scrittori, il decennale della morte potrebbe essere l’occasione per scoprire per la prima volta o tornare a leggere uno scrittore immenso e davvero unico per il senso di costruzione che ha saputo imprimere alla sua opera.

  • L'anno del bradipo. Diario di un critico di provincia si presenta come diario. Non solo scrive delle sue letture e dei suoi studi, ma scrive anche della sua vita privata. Nonostante i vaccini, il virus che ci tiene in ostaggio fa di nuovo la voce grossa in questi ultimi due mesi. Aumentano i contagi, i decessi. Come cambierà o è già cambiata la nostra vita quotidiana?
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Piccola precisazione: L’anno del bradipo non è un libro che trova la sua ispirazione nell’evento pandemico (le pagine dedicate ai primi mesi della pandemia sono davvero esigue). Ci ha cambiati? Forse. Ha senz’altro condizionato la nostra quotidianità. Ha generato solitudine, depressione, lutto, senso di perdita. Ma è anche diventato il detonatore di atteggiamenti violenti e antisociali… Il miraggio di trovarci dinanzi alla possibilità di pervenire a un genuino e rinnovato senso di comunitaria appartenenza s’è in fretta miseramente dissolto. L’esperienza, che nel libro definisco di «quaresima sociale», della pandemia non ha insomma prodotto quell’auspicato cammino di guarigione (morale e sociale) al riparo dalla violenza, dall’odio e dall’egoismo.

  • La casa editrice Sellerio non va avanti bene solo con le storie del Commissario Montalbano, ma sta diventando famosa perché da tempo ha abdicato a pubblicare solo gli scrittori siciliani e mette in primo piano i libri che piacciono agli editor. Secondo lei come evolverà il mondo editoriale? Le funzioni del critico letterario resteranno le stesse?

Il mondo editoriale è cambiato nella maniera più organica possibile a quello che è il monolitico modello economico prevalente. L’editoria dei grandi gruppi è impresa selvaggia che soffoca le realtà editoriali più piccole che stentano a tenere il passo ma che ancora, anacronisticamente, credono nella costruzione del catalogo, presuppongono un progetto culturale ed editoriale, parlano a un loro pubblico di riferimento. Analogo discorso può tenersi per ciò a cui perlopiù s’è ridotto il giornalismo culturale: l’editoria monstre arruola il lettore-bulimico-passivo, prontamente disposto ad abdicare al giudizio di valore e ad abbracciare indistintamente il nuovo evangelo commerciale (a scegliere di cosa parlare non è chi scrive, ma chi produce). Non c’è romanziere “griffato” che non diventi, appena il giorno dopo, recensore od opinionista letterario per qualche quotidiano, supplemento o settimanale. La mia boutade a riguardo è che per poter scrivere articoli sui giornali devi aver pubblicato almeno un cattivo romanzo di successo. Genere in sé autonomo, la critica letteraria che resiste sta altrove. Ed è geneticamente incompatibile con questo sistema.

  • Cos’è L'anno del bradipo. Diario di un critico di provincia? Un diario delle riflessioni sui libri letti? Prima le ho chiesto di due autori siciliani, ma in realtà legge di tutto, dappertutto. E allora, perché critico di provincia? Una provocazione?

No. Nessun intento provocatorio. Si trattava di fornire le coordinate di una mente al lavoro, dare connotazione a una voce che scrive... Marcare una provenienza come luogo lontano dai centri. Scrivere, citando Di Ruscio, «dal posto più lontano per essere più vicino». La forma del diario in pubblico è l’opzione di partenza che mi ha garantito libertà estrema, tuttavia l’idea era quella di creare un libro che tenesse insieme l’autobiografia e la critica a un livello per così dire totale. Ma ripeto: se dovessi offrirne una sintetica definizione, direi che L’anno del bradipo è il romanzo di una mente al lavoro . È un libro potenziale e aperto che in sé contiene più libri: per dirla con Steiner, un possibile catalogo di libri mancati e meravigliosamente falliti.

  • Di quali autori parla nel suo ultimo libro, di cui non so scrivere la casa editrice (n.d.r. Inschibboleth), perché sono ancora a penna e calamaio?

Dapprima avevo in mente di corredare il mio rapsodico journal di un indice dei nomi e di un più vasto apparato iconografico, giacché i materiali che s’intrecciano nel libro sono davvero molteplici. Il trait d’union è il punto di vista, è la voce di chi scrive. Che parli dei trascendentalisti americani o dell’Ottocento francese, dei Preraffaelliti o di De Chirico, di Dallapiccola o di Petrassi, di Tarkovskij o Moretti, credo che sia importante non tanto in astratto di chi o cosa si parla, ma la frizione prodotta con il mio vissuto e il mio lavoro.

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