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Premio Strega

Premio Strega 2017: piacevole intervista a Lodovica San Guedoro

In questa piacevole intervista Lodovica San Guedoro racconta la rocambolesca avventura che l'ha portata, per la seconda volta tra i candidati del Premio Strega e i motivi principali del suo secondo libro, una delicata storia d'amore autobiografica.

Giovanna Giraudi
Giovanna Giraudi Pubblicato il 20-04-2017

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Premio Strega 2017: piacevole intervista a Lodovica San Guedoro

Una scrittrice di talento, candidata già due volte al Premio Strega: questa è Lodovica San Guedoro, una persona riservata, non solita a tanta pubblicità eppure dotata di estro e capacità letterarie notevoli. Candidata al Premio Strega 2017 con il romanzo "Pastor che a notte ombrosa nel bosco si perdé...", Lodovica concede a Sololibri un’intervista: quale occasione per conoscerla meglio?

  • Benvenuta su Sololibri, Lodovica. È un piacere leggere il suo nome tra gli scrittori candidati al Premio Strega, ancor più perché per lei non è la prima volta. L’emozione è comunque la stessa?

No, assolutamente no. Non solo perché a presentarmi quest’anno sono state Dacia Maraini e Maria Rosa Cutrufelli, i più begli angeli custodi che potessi augurarmi in ogni caso e specialmente per un romanzo come quello che ho scritto, antipatriarcale al cento per cento, ma anche perché conquistare i due giurati è stata un’impresa ardua, rocambolesca, disseminata di continui colpi di scena. Generalmente lo schema per il tempo della ricerca, durata più di due mesi di ferro e di fuoco, è stato questo: proprio nel momento in cui tutto sembrava perso, si produceva un capovolgimento della prospettiva, scendeva dal cielo una sorpresa, appariva un nuovo personaggio, giungeva una notizia insperata opposta a quella che ci attendevamo, felice, se ne attendevamo una infelice; infelice, se ne attendevamo una felice. Abbiamo così conosciuto l’essenza dello Strega, premio su cui tanto si è detto. Lo Strega è nella sua anima una prosecuzione della spettacolarità barocca in tempi moderni: drammaticità, tumultuosi contrasti di luce e ombra, personaggi eminenti e misteriosi che agiscono dietro le quinte, parlare ambiguo, messaggi cifrati, allusivi o velati, scioglimento improvviso del critico intreccio per mezzo di un deus ex machina... Pensi solo che, a pochi giorni dalla chiusura delle candidature, a pochi giorni dal fatale termine del 31 marzo, sembravamo destinati a restar fuori. Lorenzo Pavolini, che pure aveva definito il romanzo “suggestivo”, non poteva occuparsene per mancanza di tempo, Ginevra Bompiani, che aveva avuto fervide, ammirate parole per la passione dell’editore e la dedizione all’autrice, aveva comunque deciso di non intervenire allo Strega. Le stesse Maraini e Cutrufelli avevano risposto in precedenza di essersi già impegnate con altri autori. Ed ecco che, il 23, piomba su di noi la scheda di presentazione di Dacia Maraini e il 29 quella di Maria Rosa Cutrufelli. Ci sono voluti giorni e giorni perché la gioia, lentamente, discretamente, sommessamente, penetrasse nelle mie vene. E realizzassi davvero che, dacché avevo temuto di essermi giocata un’occasione, tornavo in ballo con due insperatissime candidature «forti». Non mi dica che tutto questo non è squisitamente drammatico, teatro puro...

  • Senza entrare nel personale, che cosa o chi ha ispirato il suo romanzo?

Senza entrare nel personale, dice? Il romanzo è da cima a fondo autobiografico. Lo sa bene cosa o chi mi ha ispirato. Persino i nomi dei due amanti sono quelli della realtà. Più autobiografici di così non si può essere. La qualità di questo romanzo d’amore credo sia data proprio dall’essere la cronaca (poetica) di un’avventura amorosa insolita e unica, nella realtà prima e sulla pagina poi: ho attraversato il bosco dell’amore senza filtri, senza condizionamenti culturali o ideologici, con i miei soli sensi, i miei occhi, il mio cuore.

  • “Pastor che a notte ombrosa nel bosco si perdé” è una storia d’amore fatta di passione ma anche di teneri sentimenti tra due persone così differenti non solo in età ma anche nello stile di vita. Cosa può dirci in merito ai protagonisti e al sentimento che provano l’un per l’altro?

Sono entrambi perdutamente innamorati. Ma, mentre lei vive il suo sentimento in libertà, senza timori, attivamente, con una forza romantica che travolge tutto, lui risplende d’amore negli sguardi, esprime l’amore con la lingua inconsapevole del corpo, ma non sa parlarne e ben presto sente calare su se stesso e sulla storia la mannaia della famiglia e della religione. Fuggito per poco dalla gabbia, accetta di tornarvi a capo chino, contro se stesso. Anche se (cito dal romanzo):

“Curiosamente, prodigiosamente, malgrado tutti i timori che la nostra storia potesse essere risaputa dalla moglie, non si preoccupò mai che potesse essere divulgata attraverso il libro. E, anzi, m’incoraggiò a scriverlo e sembrò vivamente contento che lo facessi. Coll’intuito del suo cuore d’oro, colla saggezza innata della sua ignoranza, meravigliosamente, misteriosamente, sapeva che la trasfigurazione letteraria del mio dolore sarebbe stata la mia salvezza, che avrebbe lenito la sofferenza della sua perdita e mi avrebbe restituito il suo amore e lui stesso ogni giorno…”

  • La protagonista del romanzo, pur perdutamente innamorata del giovane Kasim, nutre un buon rapporto anche con il marito Hans che spesso le fa da confidente. È difficile, soprattutto per noi mediterranei, sanguigni e gelosi, contemplare una simile relazione. Come può avvenire ciò?

Non creda che sia poi tanto diverso fra gli iperborei. Bisogna vedere cosa si nasconde veramente dietro la cosiddetta gelosia. Normalmente tra uomo e donna c’è sempre una buona parte di reciproca estraneità, un’insicurezza di possedere veramente l’altro, ma anche il gravare di sospetti e di paure che la concezione ereditaria e corrente della sessualità non può che ininterrottamente alimentare: al di là delle parole, al di là delle pubbliche professioni, questa è sentita come qualcosa di minaccioso per l’individuo, specie se femminile, qualcosa di coercitivo, di sporco e di violento.

  • “Ciao Kasim, addio. Sei stato un’immagine della vita.” Qual è in qualsiasi storia d’amore, l’elemento più triste? L’assenza o lo svanire del ricordo?

Rispondo citando ancora il romanzo:

“La storia stava avvicinandosi inesorabilmente alla fine, e m’invase il terrore che non solo sarebbe finita, ma sarebbe stata dimenticata, che io stessa l’avrei dimenticata. Questo mi faceva ancora più paura. La corrente impassibile e spietata della vita, che tutto trasporta e dissolve, l’avrebbe sciacquata via, cancellata… Questa prospettiva mi agghiacciò, mi parve spaventosa, orribile, insopportabile e, con tutte le forze della mia anima, con un groppo di pianto in gola, mi rivoltai: non volevo dimenticare! Davo inoltre per scontato che la sua esistenza veloce, la sua esistenza convulsa e superficiale, avrebbe fatto sbiadire tutto dalla sua memoria prima ancora che dalla mia, lui ne avrebbe trattenuto il ricordo ancora per poco e poi l’avrebbe abbandonato. «Per quanto tempo ti ricorderai di me?», domandai, inebetita. «Fino alla fine. Chiuderò gli occhi», disse poggiandosi delicatamente, come un bambino, due dita sulle palpebre, «e, tra altre immagini della mia vita, tra questo e quel ricordo, ti rivedrò come mi apparisti davanti al Lotto Laden…»”.

  • La storia è davvero scritta in una maniera impeccabile. Quanta importanza lei dà allo stile che, seppur in modo diverso, è inappuntabile anche nei suoi precedenti romanzi, in particolare ne “L’allegro manicomio”?

Lo stile è in fondo tutto quando si scrive. Lo intuii molto presto, quando ero ancora un’adolescente. E lo dimostrai alla mia amica del cuore di allora congegnando un racconto su un semplice apriscatole.

  • Una piccola anticipazione: nel futuro, stupirà i lettori con un romanzo assai diverso dai precedenti da lei scritti o il suo stile rimarrà tendenzialmente autobiografico?

Prima dei miei lettori stupirò Lei, cara Giovanna Giraudi: il mio prossimo romanzo sarà la continuazione di quello che ha appena letto. Perché, nella realtà, la storia non è finita...

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