Demetrio Paolin vive a Torino, ma è nato a Canelli nel 1974. Ha passato la sua infanzia e adolescenza in un piccolo e minuscolo paesino del Monferrato, Castell’Alfero, da dove all’età di 20 anni si è trasferito per frequentare l’università a Torino. Come ama dire spesso agli amici, il suo sogno era fare il filologo romanzo, lavorare su testi antichi e non varcare mai le soglie del 600 letterario per i suoi studi. Invece il suo professore e maestro Guglielminetti gli propose una tesi di Primo Levi e Dante e dà lì è iniziato il suo apprendistato sulla letteratura contemporanea.
Ha fatto il giornalista, l’ufficio stampa, ora insegna e collabora con le pagine de La lettura del Corriere della Sera, è redattore dal blog collettivo La letteratura e Noi, diretto e pensato da Romano Luperini. Insegna scrittura creativa alla Bottega di Narrazione di Giulio Mozzi e ha come compagni di avventura tra gli altri Emanuela Canepa, Giorgia Tribuiani, Massimo Cassani, Claudia Grendene: insegnare scrittura creativa, dice sempre Demetrio, non è tanto insufflare negli altri il talento, che è un po’ come il coraggio per Don Abbondio, quanto insegnare alcune regole di composizione e di oratoria e di stile.
Ha scritto alcuni saggi: Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo (Il Maestrale, 2008), Non fate troppi pettegolezzi (LiberAria, 2014); tra i suoi romanzi Conforme alla Gloria (Voland, 2016) è stato tra i 12 finalisti al premio Strega, più altri premi come il Tropea, il Moncalieri, il Subiaco (che ha vinto), L’Onor da Gobbio (che ha vinto).
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A marzo del 2020 è uscito il suo ultimo romanzo Anatomia di un profeta, sempre per Voland: una sorta di strano esperimento narrativo, un testo ibrido in cui fiction, esegesi biblica, poesia e auto fiction si mescolano per raccontare la storia di Patrick, un bambino di 11 anni che decide di suicidarsi e le cui tragiche vicende vengono raccontate dall’Io narrante tramite la riscrittura del libro profetico di Geremia.
- Prima di parlare del suo nuovo libro, può dirci se Anatomia di un profeta viene acquistato on line, sei lei ne è a conoscenza? Come vive questo momento eccezionale a causa della pandemia da covid-19?
Il libro è disponibile sulle varie piattaforme di vendita on line e anche sul sito del mio editore Voland. I lettori possono poi, in questi momenti così complicati, chiederlo alle loro librerie di fiducia, che in molti casi si sono organizzate per fare consegne a domicilio. Per ora non è ancora presente in e-book, ci stiamo lavorando, ma data la complessità dell’impaginato ci vorrà un po’ di tempo. Per quanto riguarda la pandemia, la vivo come tutti con fastidio e responsabilità, cerco di adottare e di seguire i comportamenti che mi vengono richiesti, mi informo e cerco di capire, cerco di delegare ma non a-criticamente a chi ne sa di più (io ho studiato filologia romanza e non sono un infettivo logo), nello stesso tempo guardo con sospetto non tanto il tempo presente, ma il futuro; ovvero credo che bisognerà fare attenzione a che questo momento speciale, in cui in parte abbiamo sacrificato alla salute molte delle nostre libertà e conquiste, finisca e si torni in uno stato di normalità. Se invece la domanda riguardava il mio libro e la sua uscita in un momento sfortunato, su quello non posso farci nulla, se non pensare che non ho scritto un libro a scadenza. E quindi spero che quando finirà tutto questo e in qualche modo ne usciremo, anche se malridotti, ci sarà ancora spazio per Anatomia di un profeta.
- Il suo ultimo libro ha una struttura ibrida, dall'autofiction all’esegesi biblica, dalla poesia alla fiction. Quanto ci ha lavorato e perché la decisione di un romanzo ibrido?
Mi viene in mente una frase di John Barth che dice più o meno che “un narratore racconta una storia, uno scrittore la scrive, un cantante la canta, un mimo la mima”, ma il vero problema è “cosa è una storia?”. Io credo che semplicemente questa storia, che volevo raccontare, richiedesse questo tipo di struttura e questo tipo di lingua. È una questione di coerenza interna del libro: è vero che raccontandolo da fuori si ha l’impressione di un libro caotico e senza un centro, ma dopo la lettura si percepisce, o meglio spero che si percepisca, una struttura forte e unitaria; io come scrittore sono un servo della storia, non penso a me, alle possibili ricadute commerciali, a ciò che dirà la gente, i critici e le persone che conosco del mio romanzo. Io servo la storia, a lei mi adeguo e se comprendo e capisco che è meglio scrivere un libro ibrido, complesso, senza un fuoco narrativo e pieno di invenzioni grafiche, la mia servitù mi impone di scriverlo così, parola dopo parola.
- Perché ha scelto un bambino di undici anni, Patrick, come personaggio principale?
C’è un dato di realtà e un dato di immaginazione. Il dato di realtà è che è esistito un bambino di 11 anni che si chiamava Patrick e che si è suicidato. A questo dato di realtà ho aggiunto la mia immaginazione. Io ho una figlia di 11 anni e mi pare che 11 anni sia il momento in cui ogni persona può essere ogni cosa che vuole e desidera. L’essere umano a 11 ha davanti a sé anni, l’intera vita, nelle sue multiformi e bellissime possibilità. Potrà diventare un capitano d’industria, un ciclista, un nuotatore, un professore di biologia, di lettere, un meccanico, una suora o un prete, un assassino o un barbone: è sul crinale per la vita adulta. E mi affascinava il pensare una vita che si congela prima, mi affascinava un personaggio che decide di dire “preferirei di no” a qualsiasi opzione gli venga prospettata. Che tipo di personaggio, che tipo di persona, di essere umano è chi rifiuta la possibilità di essere qualcosa nella vita?
Il romanzo nasce per rispondere a questi interrogativi.
- Leggendolo ho avuto la sensazione di avere tra le mani un "messale tragico". C'è del vero in questa definizione?
Questa domanda mi riporta alla mente, non so per quale tortuoso circuito della mia memoria, un passaggio di Ricordi tristi e civili di Garboli e in particolare quando definisce la messa di Paolo VI in suffragio di Aldo Moro un esorcismo. A me quella definizione per quanto affascinante, non mi ha mai convinto. C’è questa idea che il cristianesimo non sia tragico, non abbia a che fare con la tragedia nel senso più classico del termine. Io penso che il cristianesimo come religione e come filosofia abbia in sé un nocciolo tragico profondissimo, che risiede nel libero arbitrio e nel concetto di Grazia. Ecco, temi del romanzo sono proprio la Grazia e il libero arbitrio, entrambi guardati e osservati dal loro punto più estremo: il suicidio. Quindi l’aggettivo tragico mi convince, per quanto riguarda il messale sono più propenso a vedere nel mio libro un breviario da curato di campagna.
- Lei ha molto rispetto per i lettori. Sembra fermarsi sempre un po' prima che il libro diventi troppo difficile. È così?
Lo spero. L’idea che muove ogni romanzo è che una persona prenda in mano il libro, inizi a leggerlo dalla prima pagina e arrivi in fondo. Detto questo, non credo di fare sconti alle persone che leggono il mio libro – sono piuttosto restio a parlare genericamente del lettore, che per me è una funzione interna al testo più che una persona reale -, ma proprio perché non faccio sconti a chi legge, cerco in tutti modi con tutti i miseri strumenti che ha la scrittura (tra tutte le arti la più povera) di fare in modo che la persona abbia tutto davanti a sé chiaro e nitido.
- Lei ha una formazione cattolica o i suoi convincimenti religiosi non c'entrano col romanzo?
Come ogni europeo, bianco, appartenente alla borghesia ho una formazione cattolica a cui si aggiunge la fede. Sono credente, profondamente. Quindi sì, la mia formazione e la mia fede c’entrano con il romanzo così come c’entrano con il resto della mia vita.
- Lei insegna in una scuola di scrittura. Si aspetta dei lettori consapevoli o crede che possa bastare una scuola per diventare scrittori?
C’è questa idea balzana che per scrivere bene sia necessario leggere tanti libri, ecco no. Per scrivere bene occorre il bernoccolo, o talento o determinazione o chiamatelo come volete, che non è una cosa che io possa fornire, che nessun insegnante può fornire; quello che possiamo insegnare in scuola di scrittura creativa è a leggere in un certo modo, a selezionare le letture – perché non è vero che bisogna leggere tanto, ma bisogna leggere bene e con una certa capacità di selezione -; possiamo insegnare alcune idee di massima sulla composizione di un testo (la retorica per usare una parola antica, ma secondo me centrale); possiamo insegnare che la scrittura è una quotidiana fatica con la propria lingua, imparando prima di tutto a diffidare della propria supposta bravura. Uno che scrive dovrebbe diffidare sempre della sua presunta facilità nel mettere giù pagine e pagine.
- Prima della pandemia da covid-19 cosa non le piaceva di questi primi anni del nuovo Millennio?
Non mi piaceva, né mai è piaciuto, né mi piace il fascismo antico e nuovo, che si traveste da sovranismo o patriottismo, non mi piaceva la facilità con cui ci eravamo abituati a lasciare la gente crepare in mare, con cui limitavamo i movimenti delle persone, la facilità con cui godevano alla notizia di una persona condannata al carcere: in una parola non mi piaceva questa sorta di abdicazione dell’umano che mi pare la vera e unica cifra di questi nostri tempi.
- Lo scrittore può essere un esempio morale da seguire o è diventato solo un uomo che produce romanzi o saggi?
Io penso di essere uno che scrive, ma so benissimo che ogni parola che scrivo – una recensione, un saggio, il mio romanzo, il lavoro su di un romanzo altrui – avrà una sua dimensione pubblica. Io non credo che i libri possano cambiare il mondo, non credo che la bellezza ci salverà e via di seguito con tutta questa paccottiglia estetica. Un romanzo può al massimo produrre un divertimento, ovvero letteralmente produrre uno spostamento dello sguardo in chi legge; questo viene chiesto a chi scrive, e non certo di essere una figura da seguire.
- A parte il suo libro, Anatomia di un profeta, come lettore cosa legge? Le piacciono romanzi recenti o anche lei pensa che il romanzo "tradizionale" sia morto?
Forse proprio come mostra Anatomia di un profeta, sono un lettore di molti e diversi generi: dal saggio, alla poesia, all’esegesi biblica, alla storia, al romanzo vero e proprio. Per la Lettura del Corriere della sera leggo molti romanzi contemporanei e debbo dire che cercando bene ci sono libri notevoli, ci sono scrittori di grande talento (faccio due nomi su tutti perché ho appena finito i loro testi: Sandro Campani con I passi del bosco e Piera Ventre con Le sette opere di misericordia). Nelle mie lezioni di scrittura creativa torno spesso con i miei alunni a ragionare su Balzac, Hugo, Dickens, Manzoni, Verga, Sterne, Defoe perché rappresentano una fase aurorale del romanzo in cui si possono intuire tutte le possibilità e varianti che il genere romanzo può assumere. Io non credo per nulla che il romanzo sia morto, anzi il romanzo come genere è ancora quello che riesce meglio a rimodularsi rispetto alla modernità e alla nostra contemporaneità accelerata.
- Siamo molto preoccupati di questa pandemia, ma l'abbiamo già nominata. Ha paura della morte? Cosa pensa del suicidio?
Della morte penso che sia nel ciclo delle cose, siamo creature e le creature hanno nel loro destino il morire; è straziante, è terribile, è tremendo, ma è così. Non amo questa sorta di cosmesi eugenetica in cui si desidera vivere ed essere sani e forti fino a 100 anni. Non ho nessun desiderio di avere una vita lunga, l’unico desiderio è di vedere mia figlia felice, solo quello chiedo, oltre alla consapevolezza di aver fatto del mio meglio in quello che mi sono prefisso di fare. E il suicidio è soltanto uno dei tanti modi in cui la morte fa parte delle nostre vite.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Demetrio Paolin, in libreria con Anatomia di un profeta
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