

Il mito di Jacques Rigaut (1898-1929), tra le figure leggendarie del dadaismo e del surrealismo, nasce in sordina con il personaggio di Alain, protagonista del breve romanzo Fuoco Fatuo (SE 2002, Passigli 2016) di Pierre Drieu La Rochelle, pubblicato da Gallimard nel 1931, ed esplode per il grande pubblico con l’omonimo film di Louis Malle del 1963, premiato alla XXIV Mostra di Venezia, attraverso la magistrale interpretazione di Maurice Ronet. Nella leggenda è "un beau ténébreux" e "un uomo che viaggia con il suicidio all’occhiello".
Altri artisti sono rimasti affascinati dalla breve e tumultuosa vita di Rigaut: lo scrittore Julien Gracq si ispira a lui nel suo romanzo Un beau ténébreux; lo stesso fa Philippe Soupault con il racconto En joue!, Breton lo inserisce nell’Antologia dello humour nero mentre Man Ray lo fotografa nella posa di Cristo crocifisso.
Jacques Rigaut: la sua vita fra Parigi e l’America
Quella di Jacques Rigaut è una brevissima biografia, seppure molto complessa. Nato a Parigi nel 1898, dopo gli studi di giurisprudenza e la partecipazione volontaria come sottotenente alla Prima Guerra mondiale, dove si arruola per noia, comincia a frequentare gli ambienti letterari e si avvicina al movimento dadaista. È l’amica Simone Kahn, futura moglie di André Breton, a presentarlo ai dadaisti. Invece, per il giornalista Jean Luc Bitton, fu Drieu La Rochelle a fargli conoscere i frequentatori del Cafè Certà di Parigi.
Di lui, nel 1927, ne fa un ritratto l’amico poeta dadaista Robert Desnos (1900-1945), che morirà nel campo di concentramento di Theresienstadt:
Rigaut incarna autenticamente un aspetto dello spirito dada. Drieu La Rochelle ne dà un’immagine poco lusinghiera, ingiusta [...] La gente di mondo vede in lui un giovane elegante, di mentalità forse un po’ scandalosa [...] Breton lo ha considerato di volta in volta un personaggio stupefacente, poi un imbecille. [...] era un ragazzo alquanto litigioso, perdipiù con un pugno formidabile [...] La vita di Rigaut è un caso DADA esemplare.


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André Breton, nell’Antologia dello humour nero, scrive:
Jacques Rigaut, a circa vent’anni, si condannò a morte e attese con impazienza, ora dopo ora, per dieci anni il momento di perfetta convenienza in cui avrebbe potuto porre fine alla sua vita. Si trattava, in ogni caso, di un’esperienza umana accattivante, alla quale sapeva dare una piega a metà tra il tragico e il umorismo, che appartiene solo a lui.
Ha scritto poche pagine, qualche verso e molti aforismi, di cui uno è rappresentativo del suo essere “scrittore”:
Un libro dovrebbe essere un gesto.


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Scrive Al Alvarez nel saggio Il Dio Selvaggio (Odoya, 2017) che Rigaut “come scrittore, distrusse tutto ciò che scriveva, non appena l’aveva completato”.
Dedito alla droga - oppio e cocaina (la coco) -, conduce una vita da dandy estremo, uno squattrinato sempre alla ricerca di soldi. Non lavora, ma ama il lusso e ha amici molto ricchi i quali spesso gli fanno prestiti o donne che lo mantengono. Rigaut è un bell’uomo, fa il manicure, si veste con eleganza ed è una sorta di gigolò che piace alle donne e agli uomini. È un bel tenebroso, non gli interessa il sesso ma l’arte della seduzione. Per un periodo fa il segretario del pittore Jacques-Émile Blanche e pure dello scrittore Abel Hermant, di cui si vociferava la sua omosessualità. Nel 1923 lascia Parigi per New York. Ritornato in Francia, nel 1924 conosce la ricca americana Gladys Barber che poi diventerà sua moglie. Per raggiungerla a New York sembra che Drieu La Rochelle avesse organizzato una colletta tra amici per pagargli il viaggio. Nel 1926 sposa Gladys e per un certo tempo vive a New York, frequentando il bel mondo e godendo della ricchezza della moglie. Ama il denaro e scrive nel micro racconto Romanzo di un giovane povero:
Non appena penso che c’è gente ricca, sopporto più facilmente la mia miseria. Il denaro degli altri mi aiuta a vivere [...] Ogni Rolls Royce che vedo prolunga la mia vita di un quarto d’ora. [...] La ricchezza è una qualità morale. [...] Uomo giovane, povero, mediocre, 21 anni, mani pulite, sposerebbe donna, 24 cilindri, salute, erotomane o che parla annamita. Scrv. A Jacques Rigaut, 73 boulevard du Montparnasse, Paris (6°).
Quando si lasciano a causa della sua tossicodipendenza, racconta J.L. Bitton, Rigaut vive in miseria, facendo letteralmente la fame nel quartiere del Greenvich Village. In America fa uso di eroina. Ritorna a Parigi nel novembre del 1928 e tenta di disintossicarsi in una clinica alle porte di Parigi. Nella stessa clinica, la mattina del 6 novembre 1929 si uccide sparandosi un colpo al cuore. Si dice che eseguì il suicidio mettendo in scena una morte impeccabile: dopo essersi lavato e vestito, effettua un’accurata misurazione con l’aiuto di un righello per calcolare sul torace l’esatto punto del cuore dove posare il revolver. La sua tomba si trova al cimitero di Montmartre.


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Drieu, nelle ultime righe di Fuoco Fatuo, descrive così la sua morte:
Ben puntellato, con la nuca sulla pila di cuscini, i piedi contro la spalliera del letto, la schiena inarcata. Il petto in fuori, nudo, ben esposto. Si sa dov’è il cuore. Una pistola è solida, è d’acciaio. È un oggetto. Scontrarsi finalmente con un oggetto.
Jacques Rigaut: uno scrittore senza opere
Rigaut scrisse pochissimo, non più di cento pagine, e in vita pubblicò solo su riviste, tra cui “Littérature”, “Action” e “The Little Review”. Ai suoi amici dadaisti mandò a dire:
Siete tutti dei poeti e io, io faccio il tifo per la morte.
Lo scrittore per Rigaut è un debole:
Scrivere è probabilmente solo il coraggio dei deboli. Parlami della pigrizia dei forti; aspettano di essere in prigione per scrivere un romanzo.
Il tema del doppio e del suicidio sono una costante nelle poche pagine scritte da Rigaut. Il suicidio del resto è inteso dai dadaisti come un gesto estremo e di autoaffermazione estetica e pure un’affermazione paradossale di libertà. Alvarez li descrive nel capitolo “Dada: il suicidio come arte” del suo saggio Il Dio Selvaggio:
per il dadaista puro il suicidio era inevitabile, diventava quasi un dovere, l’opera d’arte definitiva [...] uno scherzo psicopatico.


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Rigaut scrive le poche pagine dell’Agenzia Generale del suicidio (bordolibero, 2024). Questo è l’incipit:
Grazie a moderni dispositivi, l’A.G.S. è lieta di annunciare ai clienti che procura loro una MORTE SICURA E IMMEDIATA, il che non mancherà di sedurre coloro i quali sono stati distolti dal suicidio per il timore di mancarsi. [...] Non esistono ragioni per vivere, ma non esistono nemmeno ragioni per morire [...] Il suicidio deve essere una vocazione [...] Un uomo risparmiato dalle seccature e dal tedio forse trova nel suicidio il compimento del gesto più disinteressato, purché non sia curioso della morte!
Agenzia generale del suicidio contiene pure i Frammenti sullo specchio e il suo doppio, Lord Patchogue, di cui si dice abbia fatto stampare i biglietti da visita. Il giornalista Jean Luc Bitton, che nel 2019 ha pubblicato per Gallimard la massiccia biografia Jacques Rigaut, le suicidé magnifique, ricorda che nel 1924 Rigaut, mentre sta giocando a carte in casa di amici, vede la propria immagine in uno specchio e decide di gettarglisi contro per romperlo, per attraversarlo. Lord Patchogue contro Jacques Rigaut e viceversa. Lo stesso Rigaut aveva scritto che:
Lord Patchogue si è alzato. Si osserva attentamente, in piedi, nello specchio [...] Un attimo, facile e magico: testa in avanti, Lord Patchogue si lancia. Lo specchio, urtato, attraversato, vola in frantumi, ma lui, eccolo, è dall’altra parte.
Rigaut, La Rochelle e il suicidio
Lo scrittore Pierre Drieu La Rochelle (1893-1945), la cui fama letteraria, come è accaduto per Robert Brasillach, è stata per molto tempo oscurata a causa delle sue simpatie fasciste con il governo collaborazionista di Vichy, è l’amico-nemico del più giovane Jacques Rigaut. Tra i due ci sono stati contrasti per via delle loro diverse frequentazioni artistiche e politiche: Aragon e Breton sono comunisti. A Rigaut dedica tre scritti, colmi di giudizi aspri e taglienti.
Nel 1923 Drieu pubblica su la Nouvelle Revue Française La valise vide - in seguito sarà il primo racconto della raccolta Plainte contre inconnu (Reclamo contro sconosciuto) - identificando Rigaut con il personaggio di Gonzague. Addio a Gonzague sono poche pagine scritte sotto forma di lettera di commiato il giorno dopo il suicidio di Rigaut, e infine nel 1931 Fuoco Fatuo dove Rigaut/Gonzague diventa il personaggio di Alain. Di fatto una biografia del giovane Rigaut: bello, affascinante, tossicomane, uno squattrinato che conduce una vita sfarzosa, con una moglie ricca che lo ha abbandonato, uno scrittore fallito, un amante poco virile, un mediocre, un disadattato, uno che non ha saputo prendere in mano la propria vita e che pensa al suicidio. Perlopiù è un nichilista, anzi un pessimista. In poche parole è la metafora di una valigia vuota.
Drieu in Addio a Gonzague è pentito dei suoi giudizi sull’amico:
Da molto tempo volevo scrivere per discolparmi con Gonzague. [...] ti vedevo buttato in strada con la valigia vuota e cosa ti offrivo per riempirla? Ti rimproveravo di non trovare niente in un mondo così ricco [...] Ma io non ti ho dato niente [...] Stava lì, sotto il tuo letto, la valigia aperta dove finalmente potevi mettere che una cosa, la più preziosa che un uomo abbia: la sua morte. [...] C’è solo una cosa nella vita, la passione, e la passione si può esprimere soltanto con l’omicidio – degli altri e di se stessi. [...] Morire è ciò che potevi fare di più bello, di più forte, di più.


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Ma in alcune parti è pure il ritratto dello stesso Drieu, che si suiciderà il 15 marzo 1945 dopo aver ingerito del gardenal e aver aperto i tubi del gas. Le poche pagine di Racconto segreto (SE, 2005) sono un trattato sul suicido che Drieu coltiva già dalla pubertà e che tenta di mettere in atto diverse volte nella sua vita, e che descrive in Mesure de la France (1922) e in La comédie de Charleroi (1934).
Nella sua ultima lettera inviata al fratello scrive:
Ho sempre deplorato che l’uomo non sia mai completo, e che l’artista non possa essere uomo d’azione. Certe volte ho avuto il cocente rimpianto di essere uomo solo a metà [...] Perciò ritengo una fortuna mescolare all’inchiostro il mio sangue e rendere seria da tutti i punti di vista la funzione di scrivere [...] Mi uccido: nessuna legge superiore lo vieta, tutt’altro. La morte è un sacrificio liberamente scelto che mi eviterà certe cadute, certe debolezze.
“Fuoco fatuo”: Drieu, Louis Malle e Trier
Fuoco Fatuo, il romanzo di Drieu che diventerà un soggetto cinematografico, è ambientato nella Parigi degli anni Trenta ed è l’ultimo atto della vita del protagonista Alain, alias di Rigaut, giovane scrittore alcolizzato, separato dalla moglie americana, dandy pieno di debiti e nello stesso tempo spendaccione che alloggia nella casa di convalescenza per alcolisti del dottor La Barbinais, dove tenta di disintossicarsi. Alain ha già deciso di suicidarsi ma decide di fare visita ai suoi amici di un tempo (intellettuali, artisti, omosessuali, drogati che vivono di compromessi e di bugie per occultare la loro mediocrità e che forse sono spaventati dalla presenza di Alain), nella speranza che qualcuno gli riempia di affetto quella valigia vuota, per non soccombere, per avere una ragione per vivere. Non accade, anzi quella sorta di via crucis di un giorno e di una notte acuisce la sua solitudine, il suo disagio della vita, l’incapacità di toccare e possedere le cose.
Louis Malle (1932-1995), già assistente di Robert Bresson, è stato un regista controverso, autore di alcuni film "difficili" come “Un Soffio al cuore”, “Gli amanti” e “Lacombe Lucien”. Il suo “Le Feu follet”, girato con la pellicola in bianco e nero, è molto aderente al romanzo di Drieu, cambiano solo alcune cose:
- Alain è un alcolizzato e non un drogato;
- la vicenda si svolge nel luglio dei primi anni Sessanta e non nel novembre agli inizi degli anni Trenta, dunque in un contesto storico culturale e socio politico molto differente;
- è la Francia della guerra d’indipendenza dell’Algeria e dell’Organisation armée secrète (OAS) e non quella tra le due guerre.
È la Parigi con i cartelli pubblicitari della Cinzano, delle cantanti Françoise Hardy e di Silvie Vartan dove Alain, interpretato da un grande Maurice Ronet (nella versione italiana è doppiato dalla inconfondibile voce di Riccardo Cucciolla), afflitto da un’angoscia esistenziale perpetua riprende a bere e dice:
il male è al centro della mia volontà [...] la vita non è abbastanza veloce per me, allora io l’accelero, l’aggiusto. Io non voglio, non voglio invecchiare. Domani mi uccido.
Il mito di Rigaut (sotto altri nomi, sembianze, tempi e luoghi) si rinnova con il film “Oslo, 31 agosto” del regista norvegese Joachim Trier che, ispirato dal romanzo Fuoco fatuo di Drieu e dal film di Malle, dirige nel 2011. La storia questa volta è di Anders, un ex tossicodipendente che passa un intero giorno e una notte in compagnia degli amici di Oslo. Pure lui, come l’Alain/Gonzague di Drieu e l’Alain di Malle, è ospite di una comunità di recupero e ha una ex fidanzata che vive a New York a cui chiede aiuto.
Il protagonista è guarito ma, dopo aver passato una notte d’amore con una bellissima ragazza, all’alba tenta di annegarsi in un lago tenendo sul petto una grande pietra, come fece Virginia Woolf con il vestito pieno di pietre nel fiume Ouse. Vedere e sentire gli amici non gli è servito, anzi ha acuito il suo male di vivere. Come il Rigaut-Gozague-Alain non è capace di sentire le cose e non riesce a trovare una ragione per vivere. L’alba non promette nulla di buono, non è il giorno nuovo e la vita felice, e Anders dà le spalle all’alba che nasce per gettarsi nel buio, anzi in un buco di eroina.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il mito di Jacques Rigaut fra letteratura e cinema
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