

Sergio Sinesi ha pubblicato nel 2025, per l’editore Il ramo e la foglia, Il colore delle foglie d’autunno, la storia di una famiglia spezzata in due durante il secondo conflitto bellico. Abbiamo incontrato l’autore per porgli alcune domande sulle vicende narrate fra le sue pagine.
L’intervista a Sergio Sinesi
- Come è nata l’idea di un romanzo che parla degli ebrei italiani e delle leggi razziali ma di lato, dando più importanza alla storia in sé?
L’idea è nata dopo aver letto un articolo sulle Aquile Randagie. Queste erano un gruppo di scout che operarono nel nord Italia durante il periodo fascista. Questi ragazzi accompagnavano verso il confine chi voleva fuggire in Svizzera. L’operazione era definita Oscar, che stava per Organizzazione Scout di Collegamento Assistenza Ricercati. Procuravano documenti falsi e, nella zona di Varese, accompagnavano i fuggitivi da Viggiù sino alla cima del monte Orsa, da dove si vedeva il confine svizzero. È venuto da sé approfondire l’argomento e parlare delle ragioni che portarono a queste fughe.
Devo aggiungere che il mio interesse era anche di parlare di Schubert, uno dei miei autori preferiti. Amo la musica in generale e la classica in particolare. Nel mio precedente libro, Il segreto di Lübeck, Bach era tra i protagonisti, nel prossimo che sto scrivendo ci sarà Beethoven in qualche modo.
- La copertina e il titolo sono molto belli. Ha collaborato o è stata una idea della casa editrice?


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La copertina è stata un’idea della casa editrice. Anche a me piace. Si voleva evitare una copertina che fosse equivoca, ovvero che desse la sensazione che parlassimo di botanica. Nell’immagine, la figura di un uomo celato tra le foglie dà l’idea di una fuga.
Il titolo è mio sin dall’inizio. Gli editori avevano qualche dubbio iniziale ma dopo lo hanno lasciato.
- Mi sono un po’ perso nei passaggi tra tempo di guerra e tempo di pace. Qual è l’anno in cui Vittoria decise di chiedere alla madre di partire per cercare lo zio Vittorio?
La storia inizia nel novembre 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, e risale al periodo fascista grazie ai racconti di Clara, la madre di Vittoria. Il 1989 è significativo perché è l’anno della caduta della cortina di ferro, degli idealismi (almeno così sembrava allora) e la nascita di nuove speranze per il mondo. Al presente la ricerca dello zio Vittorio si svolge nel 1990.
- Marco, il fidanzato di Vittoria, all’inizio del libro sembra un personaggio piuttosto opaco, coi suoi problemi intimi, poi diventa essenziale o ho capito male?
Marco, oltre ad essere il fidanzato di Vittoria, è il leader del quartetto Alma, dove suonano con altri due amici. È un personaggio che sente la responsabilità del suo ruolo all’interno del gruppo di musicisti, ma vuole bene a Vittoria e comprende che deve mettere da parte i suoi problemi per aiutarla a cercare la verità sulla sua famiglia. Il suo aiuto fattivo sarà fondamentale nelle incertezze e negli scoraggiamenti di Vittoria.
- Un altro punto oscuro, ma per me solo, si intende, è il passaggio in Svizzera coi documenti falsi. Perché resta su un fatto di pochi minuti per molte pagine?
Perché quello è il momento tragico vissuto dal padre di Vittoria, il momento che segnerà tutta la sua esistenza. Per chiarire meglio, devo premettere che Samuele e il suo grande amico Vittorio si assomigliano fisicamente, tanto che verranno scambiati. Quando verranno sorpresi da una ronda nazista durante la fuga, Vittorio, grazie al passaporto falso che mostra, farà di tutto affinché credano che lui non è Vittorio ma Samuele. Questo gesto lo fa per amicizia ma anche per amore; infatti con lui c’è Miriam, sua fidanzata e sorella di Samuele. Tutt’e due saranno trasferiti ad Auschwitz. Di quel gruppo si salverà solo Samuele, e il senso di colpa per essersi salvato lo seguirà come un’ombra per tutta la sua vita.
- Il padre di Clara, Orio, nonno di Vittoria, è un personaggio tragico, difficile da dimenticare. Un uomo orribile che paradossalmente ci sembra più vicino di altri cattivi. Come è nata questa figura?
I tempi che vanno dalla nascita del fascismo sino alla sua fine tragica furono tempi di forte esaltazione. Un’esaltazione di massa (pensiamo anche alla Germania di Hitler) su cui sono stati scritti libri su libri per spiegare questo fenomeno, e che oggi è quasi impensabile che accada di nuovo in Europa. La retorica mussoliniana era oltremodo travolgente e convincente, e Hitler non era da meno. Essere fascista allora non era solo una questione politica: era uno modo di essere, uno stile di vita. Purtroppo molti non si resero conto delle menzogne che celava, e non accettarono la verità neppure quando tutto finì. Non accettare la realtà è il limite di nonno Orio, ed è il limite di coloro che non vedono il mondo andare oltre i loro pensieri sui quali hanno costruito una vita.
Il comportamento di nonno Orio non è isolato; molti non vollero aprire gli occhi sul male che avevano commesso e ancora oggi c’è chi insegue questi miti. Nel caso di Orio, c’è un doppio fallimento: quello delle idee e quello di aver perso il figlio tanto amato. Da qui nasce la sua figura.
- Lei è stato nei luoghi che racconta e a Auschwitz?
No, non sono mai stato nei luoghi raccontati, ma ovviamente ho dovuto documentarmi su di essi.
- Per lei non deve essere facile aver scritto un così bel libro, mentre l’attualità mette al bando l’Intera Israele per i fatti di Gaza, e non solo, il governo di Netanyahu.
Il comportamento di Israele non è accettabile per diversi motivi. Hamas è colpevole, su questo credo che siamo tutti d’accordo. La reazione di Israele però va oltre ogni immaginazione. È esagerata sotto tutti i punti di vista; per colpire Hamas colpisce una popolazione inerme, e viene il sospetto che con la ragione di eliminare Hamas voglia in realtà eliminare i palestinesi dalla striscia di Gaza. Non vorrei addentrarmi oltre perché rischiamo di entrare in un campo in cui esistono pareri estremamente divergenti. Certamente impressiona il comportamento del governo Netanyahu e di chi lo sostiene (sicuramente non di tutto il popolo israeliano) che, dopo aver vissuto la tragedia dell’Olocausto, non ha trovato un modo in tutti questi anni di avvicinarsi alla pace, di essere un costruttore di pace. Qualcosa non convince, però mi fermerei qui.
- La sua è una storia di "lessico familiare" in anni tragici ma scrive anche del boom economico. Perché non ci disturbano minimamente le leggi razziali del 1938 volute da Mussolini: è ignoranza storica? Qualunquismo? O perché gli ebrei non ci sono mai piaciuti senza averne conosciuto uno che fosse nella nostra scuola, nel lavoro etc.?
Individuo due ragioni per darle la mia risposta. La prima è che nell’attuale metodo di studio, la Storia del secolo scorso insegnata agli studenti è già tanto se arriva alla Prima Guerra mondiale: molti giovani non sanno realmente cosa ha portato alla Seconda Guerra mondiale, i disastri che ha fatto, il male commesso dall’uomo verso i suoi simili per ragioni di dominio. Quindi non ci disturbano le atrocità del passato perché non ne sappiamo nulla e/o quello che sappiamo, lo sappiamo male.
A questo, in modo ancora più evidente oggi, con la tecnologia che ci insegue con cambiamenti continui e con la comunicazione ossessiva sul presente, s’aggiunge il fatto che non conosciamo più la Storia e men che meno abbiamo a che fare con la memoria. Siamo, direi, quasi obbligati a stare sul pezzo, cioè sul presente, ma sapere chi siamo e da dove veniamo è fondamentale per la nostra stabilità interiore. La superficialità del mondo moderno non lo consente, voglio dire che la memoria non è più in noi, ma è affidata a un’intelligenza esterna che ci dice tutto quello che vogliamo sapere e poi la rimuoviamo perché non ci serve più. Il messaggio insito nel mio libro è quello di coltivare la memoria; non facciamo che la Storia passi sopra di noi senza esserne coscienti.
Per ciò che riguarda gli ebrei non so cosa risponderle; neppure io ne ho conosciuti direttamente, ma la bellezza della democrazia sta nell’accettare e accogliersi. Ognuno di noi è diverso per gli altri e rispettare le differenze senza prevaricare è una regola sempre valida.
- Perché il suo romanzo viene penalizzato rispetto ad altri generi letterari? Non è anche thriller la fine del romanzo?
Perché venga penalizzato non saprei. Certamente vorrei che avesse successo, se ciò non accade devo farmene una ragione. Sapere che il mio libro piace è già una grande soddisfazione, se in più dopo ciò che scrivo la gente diventa migliore è ancora più bello.
In senso lato, la conclusione del romanzo può essere intesa come un thriller, ma non forzerei troppo la mano, anche perché non era nelle mie intenzioni.
- Lei è credente? Ha paura della morte? Perché il suo modo di scrivere estremamente efficace non è stato sufficiente a farne un libro conosciuto e amato? Se fosse stato un libro Mondadori?
Sono agnostico e ho paura della morte per il semplice fatto che amo la vita. Ho iniziato a scrivere subito dopo essere andato in pensione, perché volevo lasciare documento di me alle mie figlie e a coloro che mi hanno conosciuto e amato. Le parole scritte restano, almeno per il tempo della vita di chi ha attraversato la nostra esistenza.
Per quanto concerne il fatto che il mio libro non è diventato un libro conosciuto e amato, credo d’aver già risposto in parte a questa domanda nella precedente. Forse bisognerebbe conoscere i canali giusti per entrare nella Mondadori. Quello che cerco di fare è di partecipare a concorsi, di più non saprei fare, se non presentazioni quando occorrono. Tuttavia, ringrazio gli editori de Il ramo e la foglia che hanno creduto in questo testo. E ringrazio lei per avermi dedicato il suo tempo. Un abbraccio a tutti quanti.

Recensione del libro
Il colore delle foglie d’autunno
di Sergio Sinesi
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Sergio Sinesi, in libreria con “Il colore delle foglie d’autunno”
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