Il giorno dell’invasione. 10 luglio 1943. Lo sbarco in Sicilia
- Autore: Domenico Anfora
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Mursia
- Anno di pubblicazione: 2023
Tutto il D-Day in Sicilia, minuto per minuto. Il primo giorno dell’Operazione Husky, nell’estate 1943, esaminato nel dettaglio. Le ventiquattrore iniziali, decisive, del primo sbarco aeronavale alleato in Europa, nel ventre molle del vecchio continente, l’Italia, nella Trinacria sudorientale, ai lati di Capo Passero.
Il merito del lavoro va a un ricercatore catanese, lo scrittore e saggista Domenico Anfora, laureato in scienze dell’amministrazione, luogotenente dell’Aeronautica, studioso di storia contemporanea e bellica, componente del comitato scientifico dell’Associazione storico culturale Lamba Doria.
Dopo saggi e romanzi, ha pubblicato per Mursia nel 2023 Il giorno dell’invasione. 10 luglio 1943. Lo sbarco in Sicilia (Milano, 270 pagine di testo più 8 a colori e 8 in bn, con foto e cartine in due inserti su carta di pregio).
La notte tra il 9 e il 10 luglio, il mare davanti alle spiagge da Licata a Siracusa venne letteralmente coperto dalle navi da guerra e mercantili angloamericane, scortate in quota da stormi di caccia e accompagnate da raid aerei e bombardamenti navali sugli obiettivi a terra. Si trattava della prova generale del grande sbarco che sarebbe stato effettuato undici mesi più avanti sulle coste della Normandia, nella Francia settentrionale. Un test riuscito perfettamente, per la superiorità schiacciante dell’organizzazione alleata.
Terrorizzati alla vista di un nemico immane, i fanti delle malmesse divisioni costiere del Regio Esercito vennero investiti da ondate d’acciaio e non ebbero nervi saldi per restare sul posto e opporre resistenza. Del resto, i reparti che cercarono di battersi vennero spazzati via.
I Tedeschi, allora nostri alleati, schieravano truppe migliori, comunque insufficienti per manovrare efficacemente dall’interno dell’isola contro le tre teste di sbarco angloamericane a Gela-Scoglitti, Pachino Capo Passero e Noto-Siracusa. Riuscirono a contrattaccare soltanto nel settore gelese e non bastò ovviamente a ricacciare le truppe USA che avevano messo piede in quell’area.
Si sarebbe potuto fare di più? Anfora se lo è chiesto, ha consultato documenti, testimoni ed offre chiare risposte.
La sera del 9 luglio 1943, la più grande forza anfibia mai riunita navigava da Malta verso la Sicilia. Trasportava forze congiunte angloamericane, la 7a Armata del gen. americano Patton e l’8a dell’inglese Montgomery, entrambe agli ordini superiori del gen. Eisenhower.
Alle prime luci del 10 luglio, davanti alle coste meridionali si presentò lo spettacolo “spaventoso e grandioso” di una flotta nemica sterminata da cui partivano cannonate e mezzi da sbarco. Inutile aspettare soccorso dalla sessantina di velivoli efficienti dell’Aeronautica e dalla Marina italiana, troppo provata da tre anni di guerra nel Mediterraneo. Come fermare un’invasione senza precedenti, nelle trincee litoranee protette debolmente da filo spinato e piccoli campi minati, con armi povere e insufficienti?
Le unità del Regio Esercito sull’isola erano tutte prive di esperienza bellica, scarsamente dotate di automezzi e carri, con artiglieria nettamente inferiore al nemico, per numero, potenza e munizioni.
La difesa costiera, in particolare, aveva unità formate da personale anziano, addestrate in maniera superficiale, disperse in piccoli gruppi su chilometri di costa, equipaggiate con fondi di magazzino e armi di preda bellica.
I sottufficiali non avevano esperienza di guerra, tanto meno gli ufficiali inferiori, privi di preparazione tecnica al comando. La prosopopea fascista riteneva che per guidare reparti di fanteria fosse soprattutto necessario essere valorosi e trascinare gli uomini con l’esempio. L’obbligo di fare l’ufficiale per i giovani che avessero frequentato la scuola media, aveva introdotto nell’esercito sottotenenti di complemento che si trovavano a comandare trenta uomini:
“senza l’attitudine a comandare nemmeno sé stessi”.
Capitani e maggiori di complemento facevano affidamento solo sull’esperienza acquisita nella Grande Guerra, vent’anni prima. Potevano tutt’al più dimostrare di saper morire e molti caddero da valorosi.
Qualche speranza di resistere era riposta nelle forze germaniche, poco numerose però: una divisione corazzata incompleta, la Hermann Goering; una di granatieri corazzati; una brigata contraerea. La Luftwaffe schierava non più di 500 aerei efficienti, in tutto il Mediterraneo.
Il Centro Alti Studi Militari ha pubblicato nel 1955 uno studio secondo il quale il velo di forze costiere si sarebbe dovuto battere brevemente, solo per dare tempo alle unità di manovra d’intervenire al più presto. E queste avrebbero dovuto essere numerose e di prim’ordine, armate modernamente, ben orientate. Tuttavia, tra gli Italiani solo la Divisione Livorno aveva i mezzi di autotrasporto (per poco più di metà della fanteria) e quelle tedesche prima di essere impiegate dovevano attendere il beneplacito, di Kesselring, addirittura di Hitler.
In definitiva, con numeri, armi e mezzi nettamente inferiori la difesa dell’isola non ebbe altra prospettiva che rallentare l’avanzata del nemico, per consentire al “grosso” di raggiungere Messina e passare nel continente, dove continuare la lotta.
Il lavoro, spiega lo stesso Domenico Anfora, vuole raccontare il giorno dell’invasione, che decise non solo il destino della Sicilia, ma di tutta l’Italia, avviando una campagna lunga quasi due anni, che devastò il Paese col ferro e col fuoco. Testimoni nel volume sono gli ufficiali del Regio Esercito, attraverso i rapporti resi al rientro dalla prigionia. Spazio soprattutto alla relazione del colonnello Francesco Ronco, comandante del 75° Reggimento fanteria, a Palazzolo Acreide.
Il giorno dell’invasione: 10 luglio 1943, lo sbarco in Sicilia
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