Nel 1859 è stato pubblicato un libro che ha avuto un’influenza radicale sulla storia dell’uomo: L’origine delle specie di Charles Darwin (1809-1882), frutto di una riflessione iniziata nel luglio del 1837. Lo studioso sosteneva che le specie si modificano nel corso del tempo, evolvendosi in modo lento, ma costante, con l’azione del meccanismo della selezione naturale: all’interno di una specie ogni individuo ha delle caratteristiche in comune con i suoi simili e altre peculiari, che lo rendono unico. Alcune caratteristiche permettono di adattarsi meglio all’ambiente e quindi di sopravvivere, così i geni vincenti si trasmettono alle nuove generazioni, che mutano progressivamente. Darwin era agnostico, non ateo, e alla fine del suo testo scrisse:
“Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme, o in una forma sola; e nel fatto che, mentre il nostro pianeta ha continuato a ruotare secondo l’immutabile legge della gravità, da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi”.
L’influenza delle teorie di Darwin sull’evoluzione della razza umana nella letteratura Ottocentesca è un argomento interessante, ma vastissimo e chi scrive ha pensato di restringere il campo a due autori molto amati: Jules Verne (1828-1905) e Arthur Conan Doyle (1859-1930).
Le polemiche sollevate dal darwinismo
Il darwinismo sollevò forti polemiche, che non si sono placate del tutto nemmeno ai giorni nostri: le teorie del biologo britannico incontrano ancora fortissime resistenze nell’ambiente dei fondamentalisti battisti statunitensi, fra gli ebrei ortodossi e tra i musulmani. Secondo un’indagine statistica condotta in sei stati musulmani tra il 1996 e il 2003 (Kazakistan, Turchia, Indonesia, Pakistan, Malaysia ed Egitto) alla domanda: “Sei d’accordo o in disaccordo con la teoria dell’evoluzione di Darwin?”, in Indonesia ha risposto positivamente solo il 16% del campione, in Pakistan il 14%, l’8% in Egitto, l’11 in Malesia e il 22% in Turchia. Il Kazakistan ha fatto la differenza con un 40%, derivante probabilmente dalla sua storia particolare e dal suo passato sovietico (cfr. Giorgio Tarditi Spagnoli, L’evoluzione tra musulmani, in Pikaia, 17/12/2008: Pikaia – L’evoluzione tra musulmani).
L’influenza su Verne e Conan Doyle
Il libro più celebre di Verne in cui è toccata anche la questione dell’evoluzione è senza dubbio Viaggio al centro della terra, pubblicato nel 1864. In realtà, però, in questo romanzo lo scrittore francese si mostrò più interessato a costruire una trama fantasiosa e appassionante che a trasporvi delle teorie scientifiche; i personaggi parlano di organismi “antidiluviani”, un aggettivo che si richiama al creazionismo e alla credenza che alcuni esseri oggi estinti siano scomparsi a seguito del diluvio universale. La questione dell’uomo preistorico appare innanzitutto in un particolare punto della narrazione, quando avviene il ritrovamento dei resti di “un corpo umano perfettamente riconoscibile”, subito ritenuto dai protagonisti un uomo dell’epoca quaternaria:
“ – Lo vedete – riprese a dire [il professore] – non ha sei piedi di lunghezza e siamo lontani dai pretesi giganti. Quanto alla razza a cui appartiene, è incontrastabilmente caucasica; è la razza bianca, la nostra. Il cranio di questo fossile è regolarmente ovoide, senza sviluppo di zigomi, senza proiezione delle mascelle, e non presenta carattere di prognatismo che modifichi l’angolo facciale. Misurate quest’angolo; esso è quasi di 90°. Ma io andrò più oltre nella via delle deduzioni e oserò dire che appartiene alla famiglia giapiteca sparsa dalle Indie fino ai confini dell’Europa occidentale.”
A quel tempo giapiteco o iafiteco (dal biblico Iafet, figlio di Noè) era il termine impiegato da alcuni linguisti ed etnologi per indicare l’insieme dei popoli non semitici stanziati appunto nel Caucaso e nell’Eurasia, gli indoeuropei.
Un gigante appare invece nel capitolo XXXIX:
“A meno d’un quarto di miglio, appoggiato a un kauris enorme, un essere umano, un Proteo di quelle contrade sotterranee, un nuovo figlio di Nettuno, governava l’innumerevole gregge di mastodonti.
Immanis pecoris custos, immanior ipse!
Sì! Immanior ipse! Non era più l’uomo fossile di cui avevamo incontrato il cadavere nell’ossario, ma un gigante capace di comandare quei mostri. La sua statura superava i dodici piedi, la sua testa, grossa come quella d’un bufalo, spariva nel folto d’una capigliatura incolta, una vera criniera, simile a quella dell’elefante dell’età primitiva [il mammut]. Brandiva con la mano un ramo enorme, degna verga d’un pastore antidiluviano. […] E ora che ci penso tranquillamente, ora che la calma è ritornata nel mio spirito, che son passati parecchi mesi da quel soprannaturale incontro, che cosa devo pensare, che cosa devo credere? No! È impossibile! I nostri sensi furono ingannati, i nostri occhi non hanno visto ciò che vedevano! Nessuna creatura umana esiste in quel mondo sotterraneo. Nessuna generazione d’uomini abita quelle caverne inferiori del globo, senza curarsi degli abitanti della sua superficie e senza comunicazione con essi. È cosa insensata, profondamente insensata. Preferisco ammettere l’esistenza di qualche animale la cui struttura si accosta a quella dell’uomo, di qualche scimmia delle prime epoche geologiche, di qualche protopiteco, di qualche mesopiteco, simile a quello scoperto dal signor Lartet nel letto ossifero di Sansan! Senonché questo superava per statura tutte le misure date dalla paleontologia moderna! Non importa; una scimmia, sì, una scimmia, per quanto la cosa sembri inverosimile! Ma un uomo, un uomo vivente e con lui tutta una generazione nascosta nelle viscere della Terra, mai!”
Verne cita le Bucoliche di Virgilio (ecloga quinta: “formosi pecoris custos formosior ipse”, “d’un bellissimo gregge pastore ancora più bello”), le sue parole si riferiscono alle scoperte del paleontologo Édouard Lartet (1801-1871) e al sito archeologico di Sansan, che iniziò ad essere setacciato già a partire dal 1834. In Viaggio al centro della terra è percepibile l’eco delle Sacre Scritture e della teoria del disegno intelligente, ma al di là dello stupore dei personaggi letterari non vi è alcuna polemica contro Darwin.
Gli studi del naturalista britannico sono presenti in maniera più esplicita in un’altra opera dell’autore di Ventimila leghe sotto i mari (1869-70): Il villaggio aereo, un romanzo scritto nel 1896 e pubblicato nel 1901. La trama racconta di una spedizione di esploratori che scopre un popolo di ominidi che ha costruito la sua civiltà nel cuore della giungla africana, vediamone un passo significativo dal punto di vista delle riflessioni scientifiche:
In conformità con la teoria darwiniana sull’unità delle specie e la trasmissione ereditaria delle qualità fisiche e dei difetti, si poteva dire questo: “Se le razze umane sono derivate da un ceppo scimmiesco, perché mai i dialetti umani non sarebbero derivati dalla lingua primitiva di questi antropoidi? Solo l’uomo deve aver avuto per antenati i quadrumani? Questo restava da dimostrare, e non è stato fatto”.
Forse erudito dalla lettura dei Commenti alla Genesi di Agostino, o semplicemente grazie alla sua grande cultura generale, il cattolico Verne accettò il darwinismo con assai meno difficoltà dei protestanti americani del presente.
Il caso di Conan Doyle è diverso, anche chi non è un esperto di gialli sa che un testo come quello de Il mastino dei Baskerville (1902) si fonda sulla confutazione razionale di una leggenda popolare, eppure la biografia del suo autore è curiosa e ci racconta un percorso di vita apparentemente non lineare. È piuttosto noto, infatti, che Conan Doyle fu un sostenitore dello spiritismo, ma egli ammirò anche le idee del biologo Thomas Henry Huxley (1825-1895), propugnatore del darwinismo. Il romanzo Il mondo perduto: la valle dei dinosauri fu pubblicato dal padre di Sherlock Holmes nel 1912, e a differenza di Viaggio al centro della terra è un’opera più incentrata sulla divulgazione paleontologica che su quella geologica. Ne Il mondo perduto si parla apertamente di darwinismo e weismannismo e all’inizio del libro uno dei personaggi, il professor Challenger, confrontando la struttura dell’ala di un pipistrello con quella di uno pterodattilo si richiama esplicitamente a una riflessione che è presente anche nel settimo capitolo de L’origine delle specie. La valle dei dinosauri immaginata da Arthur Conan Doyle si trova in America Meridionale ed è popolata anche da bellicosi ominidi (gli “uomini-scimmia”), che dovrebbero essere quello che all’epoca era chiamato “l’anello di congiunzione” tra l’uomo e i suoi antenati più remoti.
Ecco quanto scrive il romanziere:
“Le ho chiamate scimmie, ma in mano avevano dei bastoni e delle pietre e si parlavano mugugnando, e alla fine ci hanno legato le mani con le liane: da questo, posso dire che sono superiori a qualsiasi scimmia che ho incontrato nei miei viaggi. Uomini-scimmia...ecco come li definirei...l’anello mancante...e come vorrei che fossero rimasti mancanti!”
La vicinanza con l’uomo è enfatizzata dall’inglese con un effetto tra il comico e il grottesco, ben lontano dall’orrore suscitato ad esempio da Lovecraft nei racconti in cui descrive legami tra l’uomo e l’animale e la degenerazione dell’essere umano in bestia:
“Gli uomini-scimmia si sono consultati, e uno di loro è venuto avanti verso Challenger. Tu riderai, ragazzo mio, ma ti giuro che avrebbero potuto benissimo essere cugini. Non ci avrei creduto se non l’avessi visto con i miei occhi. Quel vecchio scimmione, che era il loro capo, sembrava un Challenger dalla pelle rossa, ed era fatto esattamente come lui. Stessa corporatura, stesse spalle larghe, stesso petto gonfio, niente collo, una grande barba rossiccia, le stesse sopracciglia a ciuffo, lo stesso sguardo.”
Forse, scrivendo queste righe, Conan Doyle aveva in mente le famose vignette satiriche che raffigurano Darwin come uno scimpanzé.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il darwinismo nei romanzi di Verne e Conan Doyle
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