

foto presente sul sito ferrucciobenzoni.it
Sono trascorsi quasi trent’anni dalla prematura scomparsa di Ferruccio Benzoni, avvenuta il 16 giugno 1997, ma la qualità formale ed espressiva della sua opera poetica, il timbro della sua voce così unico e riconoscibile all’orecchio dei lettori più fedeli e di ogni intendente di poesia restano immutabilmente una testimonianza di assoluto valore da riascoltare e custodire.
Ferruccio Benzoni e le sue principali raccolte poetiche
L’opera del poeta romagnolo nel suo complesso, dall’appassionata esperienza della rivista "Sul porto" nei pioneristici anni ’70 alle raccolte poetiche, si conquista di diritto un singolare rilievo nelle stratificate topografie della poesia italiana contemporanea.


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In particolare, il volume Numi di un lessico figliale, pubblicato da Marsilio nel 1995, essendo il documento ultimo di una vita e di una militanza poetica, venendo dopo Notizie dalla solitudine (1986) e attraversando la gestazione (quanti testi, fin dai titoli, in questo autore corteggiato dalle ombre (vo)luttuose della morte e di un dolore endemico, sorgivo, richiamano sommessamente l’atto del nascere, del venire al mondo) di Fedi nuziali (1991), offre al lettore gli elementi essenziali per l’individuazione di una costellazione di temi fondanti.
La dimensione dell’affettività nella vita e nell’opera di Benzoni
"Figliale" è la devozione con cui l’autore, rimasto orfano ancor giovane di entrambi i genitori, si ostina a cercare un approdo ad un’infanzia remota nel tempo ed essenziale nella memoria, e dunque vitale. Il termine richiama inoltre la memoria involontaria di una paternità mancata, come per l’appunto nella poesia intitolata Paternità:
Mais confier à qui, mes enfants jamais nés?
Illividiva tremava
sbattuta da uno spavento
una luce una lucina latitava
mentre fuori l’estate già
diluviante
mi disfaceva in uno sfacelo
di sciacalli senza qualità.
Se la memoria, soprattutto nella sue stratificazioni più profonde e ctonie, è il "Nume" con cui si debbono fare i conti, il tessuto poetico dei testi si consustanzia di un repertorio di invenzioni (intese nell’accezione etimologica di "scoperte", rivelazioni di ciò che già era e una volta dissepolto torna alla luce), di lapsus, di giochi verbali connotati da un simbolismo fulminante e sfuggente. E in questo fertile terreno di ricerca, di visitazione e auscultazione della parola, viene a manifestarsi l’intermittenza del cuore, mediante emblemi e araldiche private e sorprendentemente universali, come ad esempio il "tailleur azzurro" in cui si materializza con immediata condensazione metonimica il ricordo materno, nel momento esatto in cui lo strazio è così assoluto da sublimarsi e sciogliersi in una visione frammentata, che ne scompone e rivive tutta la densità della perdita:
Tempestandomi / con l’azzurro supremo d’un tailleur / Neanche il ricordo di una sbucciatura.
Il rilievo del singolo oggetto (lezione montaliana rivisitata attraversando la poetica del maestro Vittorio Sereni), la percezione e descrizione esatta e rigorosa del dettaglio insignificante (retaggio di una meditata perlustrazione oltre i confini rivieraschi di origine dei territori della poesia lombarda, comprese le briciole dimenticate nel fondo del taschino), la consacrazione della misera ma significante parte che resta del tutto e l’alterità fantastica nell’io poetico, privo ormai di una visione unitaria della realtà, sono le coordinate di un percorso verso una sfuggente, ineffabile dimensione di affettività.
L’essenzialità del dolore, i numi dell’inconscio e i lapsus del linguaggio
La fuga nell’inconscio pertanto è consciamente vana, perché mai abbandonata da un lume di chiaroveggenza, e purtuttavia colma di rivelazioni imprevedibili se al linguaggio della poesia è dato ancora la possibilità di custodire gli scampoli di una verità sfilacciata, di ripristinare con l’ebbra precarietà della meraviglia il dialogo interrotto con l’assenza in un’appartenenza, nelle forme di una nuova estrema fantasmagoria filiale.
Tra memoria e rifiuto, lucida perseveranza nella ricerca e dissimulazione di una ferita, chiarità e il suo rovescio, in questi anfratti e insenatura si svolge e si configura lo poetica benzoniana. Ne è un esemplare felice il seguente testo, tratto da A mala pena:
Armato da sempre contro me stesso / dal tempo di una cometa / celeste (cagionevole) versi / mi tenterebbero tipo "da morirne un vento" / ma per come tutta si dirada la chiarità (lo sprofondo) / e un crocchio di figuranti / mi fa sentire di essere carnefice / in una tritura di madeleine amare.
"Ingegnoso nemico di se stesso" Ferruccio Benzoni, ineffabile erede di furori alfieriani? No, perché privi ormai di ogni fede nella persona che dice "io", quei furori trascorrono ormai snaturati per spinta centrifuga come barche in avaria, in direzione contraria alla corrente incessante del dolore, rispetto a cui il dettato poetico, proprio nella sua serissima veste di ludus, contrappone la forza potente dell’inerzia, nelle forme di una solitudine e di una "desocialità" (termine che Benzoni più volte ha evocato, prendendolo in prestito da Barthes) che nel tempo, per ammissione del poeta stesso, sono diventati strumenti imprescindibili e acuminati per leggere dentro e fuori di se.
Insomma: l’essenzialità del dolore da una parte, e i numi dell’inconscio e i lapsus del linguaggio dall’altra; gli "inchiostri decorosi" evocati in una poesia (Epigrafe).
La parola e la materia dolorosa del ricordo
Dice bene Piero Cudini: "L’ultima possibilità di persistenza (di vita, di sopravvivenza) sta ancora nel decoro della parola". E questa parola densa e acta riesce a significare e al contempo a dissimulare.
Come carillon che conservano dell’infanzia suggestioni e intermittenze purissime (ma il retrogusto è di madeleine amare), queste parole, spesso attinte da prestiti di altre lingue (cospicuo è l’apporto di francesismi e anglicismi, e di termini della lingua tedesca con effetti a cerchi concentrici di ecolalie e non-sense folgoranti ), incastonate come minoranze apolidi provenienti dalle propaggini remote di una orfanità incessante, evidenziate come ferite nella carne ferita del verso che sembra in procinto di aprirsi e infinitarsi alla pronuncia di un grido prima di rapprendersi di nuovo in se, sono i perni di un meccanismo di dissimulazione che riporta sempre un passo indietro, dal baratro o dalla luce di una verità che non sappiamo, alla nota di un tasto già premuto, alla musica di un ricordo troppe volte rivissuto.
Basterebbe considerare questi versi:
Qui sono tornato a abitare / cassée fracassata la spalla / altri dormitori disertando
dove la parola francese, anticipando il corrispondente termine italiano, sembra amplificare il concetto in un effetto chiaroscuro, in cui la dialettica chiarità/tenebrosità anziché sviscerarsi in forme liberatorie sembra raggomitolarsi in sé, come un gattino dormiente rappreso nel proprio mistero.
Sono le tracce, i filamenti, i fili spezzati e i refusi del lucido, e ludico, del monologo con la propria coscienza, continuamente in fuga nel proprio inconscio, in cui si concentra e fa il nido la materia dolorosa del ricordo, vissuta alternamente come stanza dei giochi e camera di tortura.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Perché riscoprire il poeta Ferruccio Benzoni, a 28 anni dalla morte
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