Nella Giornata Internazionale della Lingua Madre celebriamo l’atto di nascita della nostra lingua: il Placito Capuano, il primo documento che attesta l’esistenza dell’italiano volgare.
Si tratta di uno dei fondamenti della Linguistica ed è un documento interessantissimo perché ci fornisce gli strumenti utili per comprendere l’evoluzione della nostra lingua nel corso dei secoli. Gli studenti di Lettere avranno imparato a ripeterlo come un mantra, un ritornello indimenticabile al pari dell’incipit della Divina Commedia di Dante:
Sao ko kelle terre per kelle fini ...
È come una formula magica e, in effetti, ha in sé qualcosa di grandioso al pari del celebre abracadabra: con queste parole, proprio con queste parole precise, nasceva l’italiano. Si tratta del primo documento scritto che attesta l’esistenza di una lingua volgare, distinta dal latino, che veniva utilizzata per le comunicazioni popolari.
La nascita della lingua italiana
Dopo la caduta dell’Impero Romano e le conseguenti invasioni barbariche la lingua fu sottoposta a inevitabili mutamenti: da queste contaminazioni sì stavano originando le lingue neolatine o romanze che in seguito avrebbero portato allo sviluppo dell’italiano, ma anche del francese, portoghese, spagnolo, catalano eccetera.
In Italia tuttavia il latino sopravvisse più a lungo che altrove: era considerata la lingua delle classi colte e rimase ammantata - a ben vedere lo è tuttora - di un’aura ineludibile di privilegio. Soltanto nel Trecento a prevalere sarebbe stato infine il volgare fiorentino e toscano che avrebbe in seguito influenzato la lingua letteraria, anche grazie a un’opera popolare come la Divina Commedia di Dante Alighieri, che non a caso è spesso considerato il “padre della lingua italiana”. Ricordiamo, a tal proposito, che lo stesso Manzoni nell’Ottocento si propose di sciacquare i panni in Arno, ovvero di adattare la lingua del suo originario Fermo e Lucia a quella alta, letteraria: dunque al fiorentino dei letterati.
Ma ora facciamo un passo indietro e scopriamo l’intrigante origine del volgare italiano, quando veniva parlato e perché.
Il fatto più interessante dell’analisi linguistica è infatti scoprire le prime attestazioni della lingua non nel linguaggio aulico dei letterati, ma nella parlata quotidiana del popolo.
Le trasformazioni, lente e continue, i sismi linguistici, avvenivano così, attraverso la contaminazione orale - e non scritta. Motivo per cui l’origine del nostro italiano non risale all’opera di Dante, ma a molto tempo prima, e possiamo riscontrarne l’atto di nascita in un’affascinante iscrizione.
Il famoso Placito Capuano, nello specifico, è un documento giuridico risalente al 960 d.C. Ma cosa c’era scritto? E qual è il suo significato?
Addentriamoci nell’avvincente mistero di questa prima iscrizione in italiano volgare.
Placito Capuano: cos’è e significato dell’iscrizione
In realtà i cosiddetti placiti cassianesi, analizzati dagli studiosi di linguistica, sono quattro. Si tratta di quattro documenti giuridici, risalenti al 960 e 963 d.C., ritrovati nelle zone di Capua, Sessa e Teano, in Campania. In queste diverse iscrizioni - che ripetono in sostanza la stessa sentenza - gli studiosi rilevano la lenta trasformazione della lingua dal latino al volgare.
Il documento più interessante, tuttavia, è proprio il Placito Capuano, ritrovato per l’appunto a Capua nel 960 d. C.
In questa frase si attesta infatti la prima separazione netta tra il latino e il volgare.
L’iscrizione riportata sul Placito Capuano recita così:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.
Che significa? Potremmo tradurla così nell’italiano corrente:
So che quelle terre, delimitate da quei confini, da trent’anni sono possedute dai monaci benedettini.
Come si intuisce si tratta del resoconto di un processo, di una contesa giuridica.
Si cercava di fatto di stabilire a chi appartenessero le terre nei dintorni del Monastero benedettino di Montecassino di cui un signorotto locale, tale Rodelgrimo di Lupo d’Aquino, voleva rivelare la proprietà. Rodelgrimo aveva occupato le terre del monastero e l’abate di Montecassino, Aligerno, cercò di far valere i propri diritti rivolgendosi a un tribunale.
Dinnanzi al giudice Arechisi deposero quindi tre differenti testimoni - un monaco, Teodemondo, un chierico di nome Mari e infine un monaco notaio, Gariberto - che si schierarono a favore dell’appartenenza delle terre ai “monaci benedettini”. La stessa frase in volgare venne ripetuta, con modifiche minime, da ciascuno dei tre testimoni come fu riportata nell’atto processuale.
Il processo si concluse dunque a favore dell’abbazia e Aligerno vinse la contesa. Il giudice infine applicò la legge emanata dal re Longobardo Astolfo nel 754.
Le testimonianze, scritte da monaci e contadini, erano dunque fedeli alla lingua parlata all’epoca e presentano una curiosa ibridazione tra lingua latina e volgare.
Nella formula Sao ke kelle terre possiamo infatti percepire l’esistenza dell’italiano che si fa strada parallelamente al latino, come rileva la conclusione con l’uso del genitivo “Sancti Benedicti”. L’incipit della frase è interessante: Sao indica infatti l’uso di un termine più formale, destinato appunto a una testimonianza ufficiale, ben diverso da un rozzo saccio o sazzo. Chi scriveva sapeva di dover ammantare il proprio documento di un particolare prestigio e dunque esordisce con Sao.
Altre formule interessanti sono “ko”, derivazione del latino quod, così come “kelle” formata dall’unione di “eccu +illae” (formula latina per quelle) e ancora“ ki”, ibridazione di eccu+hic.
Inoltre, il fatto che un’iscrizione in volgare fosse per la prima volta riportata su un documento ufficiale - addirittura un atto giuridico - ci fornisce l’esatta misura di quanto ormai la lingua si attestasse a un nuovo livello di standard. Era il volgare, non più il latino, il linguaggio utilizzato per comunicare in ambito formale. Arechisi redasse l’atto in quella lingua perché doveva essere comprensibile a tutti: la formula di giuramento dei testimoni era espressa in una forma di “volgare illustre”.
Il Placito Capuano (960 d.C.) sarebbe infatti stato seguito da molti altri documenti giuridici scritti in un linguaggio analogo. Il latino stava diventando sregolato, infarcito di termini volgari: la lingua si modificava, si contaminava di dialettismi e sfumature, e la formula testimoniale ne è la rappresentazione più evidente.
Nella scrittura aguzza, appuntita, quasi cuneiforme, con le “k” uncinate, del giudice Arechisi possiamo oggi rintracciare la prima testimonianza di italiano, l’atto di nascita della nostra lingua.
Oggi fa sorridere pensare che sia stato proprio un giudice, magari indispettito dalla faccenda da sbrigare in fretta, a fornirci una testimonianza così preziosa. Eppure proprio la sua scrittura e quella formula Sao ke kelle terre sarebbe entrata nella storia.
Un altro testo interessante che attesta l’origine della lingua italiana è il celebre Indovinello veronese, anche se gli studiosi tendono a non affidargli lo stesso valore pregnante del Placito Capuano, perché fu scritto in un latino semi-volgare nato comunque in un ambiente dotto. Questa, però, è un’altra storia di cui parleremo presto.
Nel Placito Capuano possiamo ritrovare una forma di autenticità spontanea, un documento prezioso che attesta le modifiche che stavano avvenendo gradualmente nella lingua parlata: l’italiano palpitava, crepitava e, pian piano, emergeva tra le braci del latino che gradualmente si andavano spegnendo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cos’è il Placito Capuano, l’atto di nascita della lingua italiana
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