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Storia della letteratura

Bret Easton Ellis: il cantore della decadenza

L’autore americano racconta da sempre, e senza sconti, le contraddizioni della narcisista società occidentale, rimasta a corto di ideali e punti di riferimento.

Emanuele Chiricallo
Emanuele Chiricallo Pubblicato il 12-01-2021
Bret Easton Ellis: il cantore della decadenza

Considerato cinico, e spesso al centro di aspre polemiche per le sue dichiarazioni al vetriolo, Bret Easton Ellis è uno scrittore che ha fatto della provocazione la sua cifra stilistica. Fin dagli esordi narra il lato oscuro del sogno americano, descrivendo la vita fine a se stessa di personaggi amorali senza scopi precisi, se non godere (qualsiasi significato possa avere la parola) qui e subito. I suoi sono ritratti impietosi di un mondo decaduto da tempo, in cui prevale l’illusione dell’apparenza, una maschera più o meno attraente a seconda delle circostanze, dietro cui si nasconde il vuoto più pauroso. Le sue pagine, caratterizzate da uno stile secco e minimalista, sono abrasive e sovente pervase da un’ironia sottile e corrosiva. Non uno scrittore militante, semmai un borghese che descrive il suo ambiente senza peli sulla lingua, Ellis deve il suo successo (anche commerciale) principalmente a tre romanzi, che andiamo ad analizzare nel dettaglio.

Meno di zero

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Folgorante esordio del 1985, quando l’autore aveva solo ventun anni, Meno di zero racconta la discesa agli inferi di Clay, giovane figlio di papà che si muove come un fantasma nella Los Angeles degli anni Ottanta. Spesso confuso, non sa cosa fare della sua vita, e mentre rimugina sul nulla che lo circonda (e che lo consuma dall’interno) osserva morbosamente chi gli sta attorno, mentre occupa il suo tempo libero fra sesso, droga e deliri di varia natura. Incapace di agire sulla realtà a qualsiasi livello, anche minimo, sarà testimone impotente della perdizione dell’amico di infanzia Julian.

Quella descritta da Ellis è una gioventù già decrepita, che ha avuto tutto troppo in fretta, e non cerca ormai più nulla: incapace anche solo di pensare al futuro, vive un eterno e scialbo presente, persa in un limbo di luci abbaglianti e miserie umane occultate in maniera fin troppo sbrigativa, e quindi sotto gli occhi (indifferenti) di tutti.

“Cos’è giusto? Se si vuole una cosa è giusto prendersela. Se si vuole fare una cosa è giusto farla.”

È uno dei dialoghi più brillanti e inquietanti dell’opera, che mostra tutto il relativismo etico in cui si muovono i personaggi. Ragazzi che non sono mai stati davvero giovani, fin troppo simili a certi tristi protagonisti della cronaca di ieri e di oggi.

American Psycho

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Patrick Bateman è un broker di Wall Street che conduce una doppia vita: bon vivant con gli amici e le varie conoscenze femminili, serial killer quando il bisogno di uccidere si fa insopportabile. I suoi delitti, che costituiscono l’altra faccia che non osa mostrare alla luce del giorno, sono il frutto malato del vacuo ottimismo e della dubbia moralità della gente che frequenta, a lui così simile: la sua è solo una maschera posticcia, dietro cui si nasconde il nulla. E se non sei in grado di costruire, non ti resta che distruggere.

Uscito nel 1991, è il romanzo più celebre e controverso di Ellis: le descrizioni degli atroci delitti compiuti dal protagonista gli causarono un bel po’ di guai con gli editori, nonché polemiche assortite, ma il successo fu immediato e duraturo. American Psycho è una sorta di ironia crudele e insistita al parossismo degli scintillanti anni Ottanta, un decennio ossessionato dall’ostentazione, dal rampantismo e dall’apparire. Ma le pagine più insopportabili non sono quelle in cui scorre il sangue, ma quelle in cui il protagonista mostra il suo comportamento ossessivo/compulsivo verso gli oggetti e il suo status sociale. Con conseguenze devastanti.

“In me non albergava alcun sentimento chiaro e definito. Provavo solo, a fasi alterne, una smodata avidità e un totale disgusto. Avevo tutte le caratteristiche di un essere umano – carne, ossa, sangue, pelle, capelli – ma la mia spersonalizzazione era tanto intensa, era penetrata così in profondo, che non esisteva più in me la normale capacità di provare compassione.”

Perché se è vero che le vittime di Bateman fanno una gran brutta fine, a lui è già successo qualcosa di molto, molto peggio.

Glamorama

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La moda è fascino. La moda è lusso. La moda è fatta di corpi da desiderare o invidiare. Ma è anche e soprattutto seduzione: lo sa bene Victor Ward, il personaggio principale di Glamorama, modello americano dal fascino consumato, che si tiene in precario equilibrio fra problemi economici, un’agenda fitta di impegni e amanti glamour. Nel giro di poco tempo la sua vita già al limite subirà un’improvvisa accelerazione, e Victor finirà per imbarcarsi per la cara vecchia Europa, alla ricerca di una ex fiamma divenuta attrice e modella. La vicenda scivolerà presto dalla fatua commedia nell’angoscia, e infine nell’orrore. Sia il protagonista (la narrazione è in prima persona), che di conseguenza il lettore, da un certo punto in poi non sapranno più cosa è reale e cosa no, conseguenza inevitabile di un mondo in cui la vita è solo apparenza e seduzione continua: se sei costretto a recitare sempre e comunque una parte, non puoi che smarrire il senso del reale, e soprattutto di te stesso. Il libro è del ’98, e anticipa quella confusione tra fiction e realtà tipica del nuovo millennio che era ormai alle porte, con la sua overdose dei vari reality e social network. Un must.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Bret Easton Ellis: il cantore della decadenza

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