

La solitudine può essere beata, come volevano gli antichi. Può essere feconda, creativa e fonte d’ispirazione. Ma stare insieme agli altri, seppur superficialmente tra banalità e chiacchiere impersonali, è molto più facile. Gli altri possono soddisfare la nostra vanità, darci piacere oppure fornirci la distrazione dal pensiero della morte. Stare in gruppo inoltre è un potente ansiolitico e fornisce sostegno emotivo e psicologico.
Bisognerebbe trovare un giusto equilibrio tra necessari momenti di socialità e necessari momenti di solitudine. Ma è un equilibrio difficilmente raggiungibile. A seconda dell’estroversione o dell’introversione, le persone tendono alla socialità o alla solitudine. Quando si vive sempre in mezzo agli altri vorremmo ritagliarci un momento tutto nostro; quando siamo troppo soli cerchiamo inevitabilmente gli altri.
La solitudine fra imperativi categorici carnali e spirituali
Scrive la poetessa Lavinia Frati che la solitudine è congenita alla nascita. Si riferisce giustamente al trauma della nascita. Aggiungo io che la solitudine la si prova durante la morte nostra o di qualcuno caro. La morte è un grande distacco traumatico. Insomma, si nasce e si muore soli. Ma come ha detto anni fa Papa Francesco, l’uomo non è fatto per stare solo. Siamo animali sociali, politici, simbolici (e i simboli si devono comunicare), abbiamo bisogno di contatti umani, di stimoli sociali. La pornografia, la società stessa imporrebbero che questi stimoli, questi contatti, queste relazioni fossero finalizzati alla sessualità e al raggiungimento dell’orgasmo. Ma esistono molte forze contrapposte nella società.
A imperativi categorici puramente carnali si contrappongono altrettanti imperativi categorici spirituali. La risultante è un essere umano frastornato, distratto, ingolfato, incerto, smarrito, indeciso sul da farsi perennemente: insomma una persona che non ha fermezza, che non sa che cosa vuole; è l’essere umano che non si ribellerà mai, che non proverà mai a fare la rivoluzione, perché per fare la rivoluzione non ci vuole chissà quale elevazione spirituale ma un minimo di rinuncia pulsionale.
La solitudine: l’uomo e il desiderio
L’uomo contemporaneo di oggi è programmato per soddisfare le sue “esigenze sessuali”. È un modo per controllare la nostra libertà di azione e soprattutto di pensiero. La stragrande maggioranza dei pensieri degli esseri umani in forze in questa società occidentale è fatta soprattutto da desideri sessuali. Come cantava Gaber, abbiamo la libertà di fare tutto, tranne quella di pensare.
Per il resto, come scriveva Schopenhauer, “l’uomo può fare ciò che vuole ma non sa volere ciò che vuole”. Il problema è che nessuno sa perché nascono certi desideri.
Un altro dilemma è come conciliarsi con il nostro desiderio. Ma il problema maggiore è che mass media, moda, pornografia ci obbligano a desiderare partner che hanno certi criteri estetici e certi requisiti. Schopenhauer è stato un profeta. Ma il dominio entro cui si deve desiderare è sempre stato imposto dall’alto, è sempre stato stabilito dal potere. Un tempo c’era più spazio per i gusti personali; oggi nessuno ti impone chi amare, ma il potere ti indica le caratteristiche che deve avere. Oggi, in questa società massificata e omologata, abbiamo tutti grossomodo gli stessi desideri; la soggettività si è ridotta. Dicono “non è bello ciò che è bello. È bello ciò che piace”, ma se i nostri gusti personali non si uniformano ai canoni e ai modelli universalmente riconosciuti andiamo incontro alla disapprovazione e alla solitudine. Allo stesso tempo, se noi non rientriamo in certi canoni estetici e se non rispecchiamo certi modelli andiamo incontro alla solitudine.
Riconoscere tutto ciò, smontare questa macchina del desiderio, vedere questi meccanismi è il primo passo per essere autentici.
Solitudine e rapporto con l’Altro
Ritornando alla solitudine, ci sono mille modi diversi di sentirsi, di essere soli, percezioni soggettive della solitudine tanto diverse quanto sono gli uomini. La solitudine è una cosa che non si può omologare e proprio per questo è invisa al potere, perché da essa può nascere un pensiero diverso, un pensiero contro. La poesia è importante perché comunica la solitudine. Come quella di Octavio Paz, per esempio.
Tra il proprio io e gli altri ci sono fratture, barriere, distanze. Eppure abbiamo bisogno degli altri per colmare un vuoto interiore. C’è la solitudine del corpo che ci fa cercare un altro corpo. È qualcosa di fisiologico, ormonale da giovani e più psicologico e affettivo da maturi o anziani. C’è la solitudine dell’animo che può farmi cercare un corrispettivo femminile, oppure taluni possono cercare addirittura Dio grazie a essa.
Siamo nati così, con un’apertura all’altro o addirittura all’Altro.
L’uomo è animale politico, sociale etc. La verità è che siamo con gli altri anche in perfetta solitudine. Anche se fossimo soli su un’isola deserta, gli altri sarebbero presenze fantasmatiche. Succede che sentiamo l’assenza degli altri, che abbiamo sempre bisogno degli altri; nella migliore delle ipotesi, a prolungati periodi di solitudine si devono alternare sporadici contatti sociali, in quanto non ne possiamo fare a meno. Stare troppo soli, anche per l’autoperfezionamento e per l’elevazione spirituale, significa chiedere troppo a sé stessi e stare male alla fine. Pochissimi esseri umani possono imitare la solitudine divina. Nel migliore dei casi si va incontro alla deprivazione sociale, nel peggiore dei casi alla follia. È vero che gli altri possono distrarre i mistici da Dio, ma è uno sforzo immane fare come i Padri del deserto!
La solitudine è qualcosa che tocca le più intime fibre del nostro essere perché, come ci insegna la mitologia, siamo esseri umani e perciò ontologicamente incompleti. Un gradino da superare è quello di rompere la nostra solitudine. La colpa o il merito non è attribuibile unicamente a noi; dipende anche dagli altri, dalla sorte che abbiamo etc.
Un altro gradino da superare è quello di costruire una relazione duratura e autentica. La cosa non è affatto scontata perché la realtà, anche quella umana, è sempre più effimera e strumentale. Tutto sembra essere interessato, avere un secondo fine. Anche qui ci vuole una mano dal Fato. L’innamorato si chiederà: per quale motivo mi ama? Oppure confessa a un amico: vorrei che la mia ragazza mi prendesse per quello che sono. Di fronte a questa esigenza interiore, io mi sono sempre detto che nessuno può prendere nessuno per come è perché nessuno sa come è nessuno. In fondo chi, come, cosa siamo? Nessuno lo sa. Possiamo solo fare supposizioni più o meno fondate.
La complessità del rapporto con l’altro
Per prendere un’altra persona per quello che è veramente bisognerebbe conoscerla nel profondo del proprio Sé. Ma ci sono zone morte e zone inesplorate anche nel nostro io. Il dialogo spesso è superficiale. Si parla del più o del meno. Non si va in profondità. Figuriamoci quanto è approssimativa e improvvisata la conoscenza altrui! Non bisogna neanche chiedere l’impossibile alla relazione con gli altri, che ha naturalmente dei limiti evidenti. Come ho già scritto, chiedere l’amore totalizzante o l’empatia totale facendo della persona amata quasi una divinità è chiedere troppo: quando le aspettative sono troppo elevate si vivono delusioni profonde.
Allora visto che non possiamo chiedere l’impossibile ci dobbiamo limitare alla comunione dei corpi, alla speranza remota degli orgasmi reciproci, al calore umano, alle carezze, agli abbracci. Le parole dicono molto: oggi ci sono mille tentazioni sessuali, mentre un tempo tutto era peccato. Un tempo si parlava di vizio, di voglie sessuali. Oggi si parla di esigenze sessuali da soddisfare. Non si può esimersi da questo. Tutti pretendono l’orgasmo. La fisicità è la premessa di tutto. Siamo passati da un estremo all’altro. Il problema è che oggi molti/e vogliono tutto subito e non sopportano la loro insoddisfazione.
Alla base di tutto c’è l’amore del corpo dell’amata. Eppure, nonostante ogni essere umano rimugini più volte al giorno le sue fantasie erotiche, una coppia in media fa l’amore 2-3 volte alla settimana in media. C’è una tensione continua, un desiderio costante in questo mondo ipersessualizzato che però è inconcludente, inappagato, frustrante. Siamo sottoposti nella vita reale e in quella virtuale infruttuosamente a mille stimoli erotici. L’immaginario erotico ci distoglie dal pensiero, dalla conoscenza autentica di noi stessi e degli altri. Finisce così che molte donne sospettano che tutto o quasi nei rapporti, anche più sporadici con gli altri, sia finalizzato al sesso.
Il sesso in Occidente sembra essere diventato da mezzo per la procreazione o per la conoscenza il fine ultimo di moltissime relazioni. Ci sono donne che si offendono se gli uomini non ci provano; per costoro gli uomini devono corteggiarle, provarci, adorarle… altrimenti sospettano che non siano veri uomini, che non siano virili. Le solitudini si cercano, cercano di essere condivise, di entrare in comunione tra di loro, di compenetrarsi. Ma è difficile oggi costruire legami solidi, saldi.
Si può essere soli anche in coppia, anche con una famiglia, se ci si sente incompresi. Cerchiamo noi stessi negli altri, ma per instaurare una relazione autentica dobbiamo anche cercare un nuovo orizzonte negli altri e la cosa deve essere reciproca. Il problema di fondo è che a nessuno basta rompere la solitudine con qualsiasi altra persona, ma cerca persone simili o complementari. Infine, al mondo d’oggi ci sono tante persone sole perché non ammettono di essere sole, perché pensano di riuscire a stare da sole e perché si vergognano di dire che sono sole.
Scrittura, solitudine e ricerca di sé
Succede che scrivo per fare chiarezza dentro me, per fare luce in me. A volte c’è un poco di confusione o un poco di combattimento in me e allora butto giù qualche riga per chiarirmi le idee o per riappacificarmi con me stesso e/o con il mondo. Scrivere significa allora approfondire, cercare un poco di verità in sé stessi, nei propri pensieri. Scrivere è prima di tutto una presa di coscienza della notte che sta attraversando il mio animo e non solo, ma anche tutto il mondo. Inoltre in ogni mio scritto è molto spesso presente anche il tu dialogico, seppure in forma implicita.
Come in certi poeti che si rivolgono a una figura femminile, la evocano, sebbene questa li abbia delusi, traditi, respinti. La relazione dialogica, per dirla alla Buber, è una necessità di chiunque. Scrivo per mettere ordine in me stesso, per cercare di mettere in ordine il mio mondo. A ogni modo, da soli o in compagnia, una cosa è certa: la nostra mente è relazionale. Noi viviamo di relazioni. Anche stare da soli è un modo di relazionarsi con sé stessi. Il problema è che ci sentiamo soffocati quando le relazioni non le percepiamo come autentiche. C’è chi trova fratture nel proprio sé ed è in crisi con sé stesso, c’è chi ha dei blocchi comunicativi con gli altri ed è in crisi con gli altri. Avere senso del limite non significa solo accettare la nostra finitezza, ma anche riconoscere che abbiamo bisogno degli altri. Tutto questo è di facile comprensione, di facile acquisizione, per qualcuno è pure ovvio e scontato, però partire da questi presupposti per vivere concretamente la nostra vita è molto più difficile. Ci sono persone che non chiedono aiuto e allora si autodistruggono.
A ogni modo, come scrisse Kierkegaard, ogni uomo è solo di fronte a Dio. Per questa ragione scrivere e parlare sono fondamentali per comunicare la solitudine. In buona parte dei casi per stare un minimo bene ci vuole il dono di sé a qualche altra persona e dobbiamo ricevere il dono altrui. Dobbiamo però chiedere di volta in volta a noi stessi di cosa abbiamo veramente bisogno, che cosa ci fa stare veramente bene o veramente male, che cosa ci dà piacere e cosa è tossico.
Leggevo sull’ultimo numero della rivista Atelier che per il poeta Franco Buffoni la parola è per definizione sinallagmatica, cioè mette sempre in relazione noi con qualsiasi cosa, con qualsiasi parte di noi stessi, con qualsiasi altra persona. La domanda che potrebbe sorgere spontanea è: cosa cerchi in te che gli altri non ti possono dare? Io potrei allora controbattere con un’altra domanda: cosa devo cercare negli altri che non posso trovare in me stesso? A seconda degli eventi, delle circostanze, della personalità di base, della mentalità possiamo cercare in noi stessi o negli altri, possiamo orientarci verso di noi o verso gli altri, ma importante è non smettere di cercare. Alla base di tutto nella vita deve esserci la ricerca e non conta se è più ricerca dell’altro o di noi stessi, anche perché può accadere che si cerchi gli altri in noi stessi oppure sé stessi negli altri, in un gioco perenne di identificazioni, introiezioni e proiezioni. A volte penso che, al di là della dicotomia io/altri, forse la realtà è che ognuno, facendo spesso tentativi maldestri, cerca in sé stesso, negli altri, nel mondo Dio o la sua parvenza. Allora forse questa è la ricerca più vera, questo è l’incontro più autentico. Eppure è così difficile. Chi è veramente Dio in questo trambusto di religioni e di profeti? Ognuno chiama a sé seguaci, fedeli, adepti. Molti pensano che Dio sia con loro, dimenticandosi che sulle cinture dei soldati dell’esercito nazista c’era scritto “Gott mitt uns” (Dio è con noi). Come saper riconoscere la vera voce di Dio quando la maggioranza crede negli idoli e nel vitello d’oro?
In definitiva mi chiedo dove sta la verità, quale sia l’ipostasi delle cose e dove sia Dio in questo mondo di brutture. Ma è una domanda che si fanno molti nel loro cuore e che non trova mai una risposta certa. Alcuni si arrogano il diritto di giudicare, ma fingono a sé stessi. La verità è che anche chi ha fede, per onestà con sé stesso e con gli altri, deve coltivare il dubbio.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La solitudine è un male o un bene? Riflessioni a largo raggio, tra filosofia e letteratura
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