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Søren Kierkegaard: il suo pensiero e la sua filosofia

Il pensiero di Kierkeegard affascina ancora oggi i lettori giovani e adulti perché si muove in una dimensione del tutto soggettiva e riflette sulle grandi questioni della fede e del male.

Simone Casavecchia
Simone Casavecchia Pubblicato il 09-08-2016

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Søren Kierkegaard: il suo pensiero e la sua filosofia

Il pensiero di Søren Kierkegaard appare, ancora oggi, come una filosofia eccentrica e, per certi versi, rivoluzionaria, che, nel corso del Novecento, ha contribuito in modo decisivo all’affermazione di correnti come l’Esistenzialismo e il Personalismo.
Considerare i concetti chiave di Søren Kierkegaard, inoltre, è un esercizio utile non solo per una lettura consapevole delle sue opere ma anche per prepararsi ad affrontare la maturità e per redigere una tesina da discutere nelle prove orali o in vista di un esame universitario.

La vita e le opere principali

Søren Kierkegaard (1813-1855), nato a Copenaghen, in una famiglia numerosa mostrò fin dall’adolescenza, segnata dalla sofferenza, un carattere riflessivo, introverso e malinconico. Altro elemento indispensabile per comprendere il pensiero di Kierkegaard è la sua elevata religiosità, contrassegnata soprattutto dal dramma della crocifissione e dalla frequentazione di concetti come quelli di dolore e di peccato.
Tra i pochi eventi salienti, in una vita quasi del tutto dedita alla religiosità e allo studio, occorre ricordare la rottura del fidanzamento con Regina Olsen, una rottura provocata dallo stesso Kierkegaard che scelse di non celebrare il matrimonio, probabilmente per dedicarsi completamente al suo rapporto con Dio, vissuto con spirito di penitenza, e all’attività di “scrittore di cose religiose”.
Per quanto riguarda la sua formazione, Kierkegaard ascoltò, nel 1841 a Berlino, le lezioni di Schelling da cui fu dapprima colpito positivamente, per poi restarne deluso. Nello stesso anno pubblica “Sul concetto di ironia” (1841) mentre negli anni successivi continua la sua attività di intellettuale, con articoli divulgativi e saggi filosofici, quali “Aut-aut” (1843), “Timore e tremore” (1843), “Il concetto dell’angoscia” (1844) “La malattia mortale” (1849). Questi ultimi anni, sempre poveri di eventi esteriori di rilievo, furono contrassegnati da un’aspra polemica sullo statuto della cristianità, intrattenuta con le gerarchie della chiesa luterana danese, e causarono alla personalità di Kierkegaard, estremamente sensibile, grandi sofferenze.

Filosofia e soggettività

Oltre alla già richiamata polemica contro la chiesa luterana, colpevole di aver trascurato il messaggio rivoluzionario del Vangelo e di aver trasformato la religione in una serie di massime razionalmente condivisibili e, quindi, in una sorta di buon senso comune, l’altro fronte su cui si esercita la vis polemica di Kierkegaard è Hegel.
Riconosciuto, insieme a Schopenhauer e a Nietzsche, come uno dei grandi contestatori del pensiero sistematico tematizzato dal filosofo di Stoccarda, Kierkegaard afferma la soggettività della verità ovvero una valenza esistenziale del vero: mentre la riflessione oggettiva di Hegel rende il soggetto un che di accidentale, facendolo quasi sparire in favore del pensiero astratto, la vera filosofia deve avere la capacità di illuminare l’esistenza.
La verità, in altri termini è quella che dona all’uomo la consapevolezza della propria condizione esistenziale come:

  • singolo che non può essere ridotto al processo storico e allo Stato (che in Hegel è il momento più alto dello Spirito Oggettivo);
  • individuo che deve scegliere e che, quindi, non può permettersi di scindere la verità dal bene che egli stesso vuole e attua a livello personale;

Il pensiero soggettivo di Kierkegaard è il pensiero del concreto esistente, che nulla ha a che vedere con la ragione trascendentale kantiana o con la ragione astratta hegeliana; un pensiero che è infinitamente più interessato all’esistenza stessa, con i suoi fatti concreti e la sua drammaticità che neanche la Cristianità stabilita è in grado di cogliere.

L’Aut aut e gli stadi dell’esistenza

Contro la dialettica hegeliana che è sintesi degli opposti e che impone all’esistenza universale e collettiva una cammino necessario e, quindi, privo di responsabilità e di libertà personale, Kierkegaard, muovendo da una prospettiva del tutto incentrata sulla persona, difende la possibilità di scelte libere tra alternative inconciliabili. È questo, in sintesi, il significa dell’espressione aut-aut, la scelta che, nella sua drammaticità, deve essere continuamente affrontata da ogni individuo che, a fronte della sua libertà personale, non può delegarla o demandarla ad altri.
Questa scelta personale diviene necessaria per affrontare gli stadi dell’esistenza e per passare, in modo libero e volontario, da uno all’altro di essi. Kierkegaard distingue, richiamandosi probabilmente alla teoria dei tre ordini di Pascal (che distingueva tra materia, spirito e carità):

  • lo stadio estetico dove l’uomo vive sempre e solo nel momento, nella pura particolarità: è lo stadio della sensibilità e del rifiuto di tutto ciò che è impegnativo, ripetitivo, serio. La vita dell’esteta è contrassegnata dalla ricerca di sensazioni sempre nuove, dall’idolatria dell’instante e dal rifiuto di ogni legame stabile, sia affettivo che sociale. La figura che esemplica al meglio lo stadio estetico è quella di Don Giovanni, seduttore che passa da una donna all’altra senza mai legarsi e senza alcuna prospettiva. In questa vita dedita all’esteriorità, l’esteta fugge continuamente da sé stesso in una noia che maschera profonda disperazione;
  • lo stadio etico è connotato da stabilità e ripetitività, come ben dimostra la figura simbolo del matrimonio: qui l’uomo si sottopone a una regola e a un impegno costante nel tempo, scegliendo l’universale. Si tratta però di un atteggiamento rigoristico e serioso, dove l’uomo non riesce ancora a riconoscere il peccato e l’angoscia che l’accettazione di una regola e di una morale universale non possono risolvere. La verità di sé e della propria vita, la possibilità di guardarsi davvero come un io è ottenibile solo attraverso il pentimento, l’ultimo passaggio della vita etica, dove l’uomo si pone di fronte a un Dio personale rivelatosi in Cristo, incontro questo che gli consente di passare allo stadio successivo.
  • Lo stadio religioso trova la propria rappresentazione più pregnante nella figura di Abramo, disposto a sacrificare il figlio Isacco. In questo stadio l’uomo affronta il proprio io e gli aspetti di esso – l’angoscia e la disperazione – che finora non era stato in grado di capire e risolvere. L’uomo ha qui la possibilità di decidersi per il “salto della fede”, una scelta richiesta dal Dio della rivelazione cristiana e che è al di là della ragione, come ben dimostra il caso di Abramo.

L’angoscia e la fede

Decidersi per la fede, non è una scelta irrazionale ma un’opzione che risponde perfettamente all’esistenza umana; ciò è vero perché anche l’angoscia e la disperazione non vengono considerati da Kierkegaard come eventi eccezionali ma come sentimenti intrinseci al soggetto e al suo modo di guardare al mondo.
In “Aut-aut” Kierkegaard considera l’angoscia come un sentimento strutturale in ogni essere umano dal momento che il suo modo di conoscere è essenzialmente sospeso nei confronti del futuro: mentre Dio del futuro sa tutto e gli animali nulla, l’uomo vive l’indeterminatezza del futuro, guarda al futuro in quanto indeterminato ed è qui che sorge l’angoscia, un sentimento che ha sempre un oggetto indeterminato, a differenza della paura.
All’angoscia sono strettamente collegate le dimensioni della possibilità e del peccato, dal momento che l’angoscia si riferisce sia a ciò che potrebbe accadere in futuro fuori di noi, sia a ciò che noi stessi potremmo fare in futuro.
Ne “La malattia mortale” è invece la disperazione ad essere compiutamente tematizzata come incapacità dell’uomo di accettare sé stesso, come condizione in cui l’uomo dispera di sé stesso. Mentre la natura umana consta, nella sua complessità, di differenti fattori in constante dialettica, gli uomini sono preda della disperazione perché, incapaci di accettare tutti questi fattori, rinunciano ad essere completamente sé stessi, puntando sul solo fattore, sia esso la finitezza e la materialità, o l’infinitezza e la possibilità, che riescono a controllare meglio.

Il Cristianesimo

Solo attraverso il Cristianesimo l’uomo riesce a guardare alla verità di sé stesso in tutta la sua complessità. Abbracciando il Cristianesimo l’uomo riesce a superare l’angoscia, dal momento che nessun evento contingente futuro, per quanto negativo, riuscirà a sottrarre all’uomo un bene eterno al quale è possibile accedere solo attraverso un atto di libera scelta, attraverso l’accettazione della libertà umana che nessun evento contingente futuro può mettere in discussione.
Il Cristianesimo è anche la scelta che consente di superare la disperazione: solo se si tiene il Cristianesimo per vero e lo si sceglie, l’esistenza dell’uomo, come passaggio dal finito all’Infinito, e la sua dimensione corporea e finita, come luogo dove l’Infinito si attua e verifica, diventano cariche di senso.
Kierkegaard spiega anche come è possibile credere ossia, come è possibile considerare Cristo come la strada per la felicità. Se la fede è un salto oltre la razionalità pura e semplice, un paradosso, essa non potrà essere conservata solo attraverso argomentazione e convinzioni di natura intellettuale; essa, in altri termini, e contro ogni intellettualismo (il bersaglio polemico qui è Socrate e la sua convinzione che per volere il Bene basta conoscerlo), richiederà una volontà attiva e impegnata a tener vivo il sapere, attraverso il rischio esercitato in scelte concrete, capaci di concretizzare una dottrina che, altrimenti, sarebbe svuotata di ogni autenticità.

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