

Nella cultura europea del XVIII secolo emerge prepotentemente il mito del buon selvaggio: la sua paternità è attribuita di solito a Jean-Jacques Rousseau, che più di tutti lo rese celebre, ma la convinzione che i selvaggi fossero buoni per natura era diffusa già prima che il suo celebre Discorso sull’origine della disuguaglianza venisse dato alle stampe.
Sarà quindi opportuno chiarire subito qual è l’origine del mito del buon selvaggio, quali sono gli eventi storici, le vicissitudini, gli scritti, nel quale si configura inizialmente: ciò ci costringerà a fare inevitabilmente i conti con la scoperta del Nuovo Mondo e con i dibattiti culturali che questo evento portò con sé.
Il mito del buon selvaggio, infatti, lo troviamo già prima di Rousseau che, piuttosto, lo rielaborò in modo originale all’interno della sua riflessione e gli assegnò un peso specifico nella sua teoria politica e nella sua filosofia della storia.
Scopriamo allora insieme l’origine e il significato del mito del buon selvaggio e le opere principali in cui compare.
La cultura europea e il nuovo mondo: l’origine del mito del buon selvaggio


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Che i selvaggi fossero buoni non è in realtà l’opinione che va per la maggiore nell’Europa del Settecento: di certo già da almeno un secolo si è aperto un fervente dibattito culturale sulla natura del nuovo mondo e su quella dei suoi abitanti. Come spiega Antonello Gerbi nel bel saggio La disputa sul nuovo mondo (Adelphi, 2000) fino ad allora erano stati espressi
Osservazioni e giudizi e pregiudizi […] come sorprendenti notizie di terre lontane nelle prime relazioni dei viaggiatori e naturalisti nel Nuovo Mondo, o come paradossi e favole polemiche nei racconti dei missionari, nelle utopie e nei miti del buono o del cattivo selvaggio
È però proprio nel Settecento che tutte queste affermazioni trovano una prima coerente forma scientifica con l’opera di Buffon, a partire dalla quale
La tesi dell’inferiorità dell’America ha una storia ininterrotta, una traiettoria precisa che, attraverso de Pauw, tocca il suo vertice con Hegel e s’allunga poi […] fino […] alle sommarie condanne e alle fumose esaltazioni tanto comuni ancora ai giorni nostri.
In altri termini nel secolo dei lumi la convinzione che l’America fosse una terra inferiore – per la giovane età geologica delle sue catene montuose, per le sue paludi insalubri, gli insetti nocivi e la mancanza di tanti mammiferi –, propria di Buffon, viene traslata ai suoi abitanti per la prima volta dall’abbate Corneille de Pauw e poi cristallizzata nell’Enciclopedia hegeliana, attraverso l’infruttuoso tentativo di far rientrare tutta la realtà in una logica triadica che, dovendo prevedere anche dei momenti di caduta, non lasciava scampo ad alcunché.
Certo, questa è solo una delle posizioni in campo: pareri discordanti in questa disputa ce ne furono prima e dopo il Settecento ed è proprio a questi ultimi che dobbiamo guardare per comprendere il mito del buon selvaggio.
Già nel Cinquecento, accanto a quelli che ritenevano i selvaggi omuncoli, meno che uomini perché privi della civiltà e forse anche dell’anima – come malignavano quei missionari che il battesimo lo imponevano a suon di punizioni corporali – c’erano altri che aveva indirizzato su di loro uno sguardo più obiettivo.


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Il domenicano Bartolomé de Las Casas scrive, ad esempio, nel 1542, una Brevissima relazione della distruzione delle Indie, con la quale dettaglia all’imperatore Carlo V le nefandezze dei suoi conquistadores; in essa afferma:
Tutte queste […] genti […] Dio le ha create semplici, senza malvagità né doppiezze, obbedientissime e fedelissime ai loro signori naturali […] più di ogni altre al mondo umili, pazienti, pacifiche e tranquille, aliene da risse e da baruffe, da liti e da maldicenze, senza rancori, odi né desideri di vendetta. E sono di costituzione tanto gracile, debole e delicata, che sopportano difficilmente i lavori faticosi e facilmente muoiono di qualsiasi malattia […].
È poi gente poverissima, che assai poco possiede e ancor meno desidera possedere beni temporali: per questo non sono superbi, né avidi o ambiziosi. […] Sono d’intendimento chiaro, libero e vivace, capaci di apprendere docilmente ogni buon insegnamento.
De Las Casas ne traeva la conclusione che i selvaggi fosse meglio evangelizzarli con la parola piuttosto che con la frusta ma la loro innocenza e la loro mansuetudine produssero corollari assai variegati nell’opinione di chi li guardava con favore: basterebbe citare Montaigne, il primo teorico del relativismo culturale, o il nostro Giambattista Vico, che teorizzò quell’età degli dei da cui prendeva le mosse il progresso, dove la mente degli uomini era popolata da universali fantastici.
Il significato del mito del buon selvaggio in Jean-Jacques Rousseau


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Ancor prima di scrivere le sue opere maggiori – Il contratto sociale e l’Emilio – Jean-Jacques Rousseau indaga in uno dei suoi celebri discorsi l’origine della disuguaglianza tra gli uomini. È per questo che, come molti prima di lui, si appella a un ipotetico stato di natura da cui muovere per spiegare il decorso dei destini umani. Decorso che, per quest’illuminista eretico, non è affatto un progresso come credevano ad esempio Condorcet e Herder, ma un regresso.
Avversando Hobbes che intendeva l’uomo come naturalmente malvagio, Rousseau ritiene che in un’ipotetica condizione prestatale e astorica (ovvero nello stato di natura) l’uomo di natura viva in una condizione di sostanziale armonia e di manifesta innocenza. L’uomo, insomma, per natura nasce buono mentre è la civiltà, il progresso, la proprietà privata soprattutto, che lo rende cattivo, determinando così le tangibili disuguaglianze da cui era afflitto, allora come ora.
Quello dell’uomo naturale di Rousseau è uno stato di perfetto equilibrio dal momento che ha dei bisogni minimi – il cibo, la femmina e il sonno – che può facilmente soddisfare mediante quel che la natura gli offre in abbondanza. Scrive, infatti, il filosofo ginevrino:
“poiché il selvaggio desidera solo le cose che conosce, e conosce solo quelle che possiede o può possedere facilmente, niente può essere tranquillo quanto il suo animo”
I caratteri dell’uomo di natura e del buon selvaggio in Rousseau
Per Rousseau, infatti, oltre a vivere alla giornata, privo di qualunque progettualità che lo proietti in un più o meno prossimo futuro, l’uomo di natura non può dirsi neanche buono o cattivo, la sua è una condizione presociale ma anche, potremmo dire, prerazionale, quindi, in definitiva edenica.
Anche nel cuore dell’uomo di natura, tuttavia, albergano dei sentimenti:
- l’amor di sé, da intendere come un primordiale istinto di autoconservazione che lo porta alla ricerca del benessere, e da distinguere dall’amor proprio, sentimento tutt’altro che naturale che per Rousseau coincide con l’egoistica ricerca del proprio tornaconto, con l’interesse personale;
- la pietà, ossia la repulsione verso la sofferenza e la morte di altri uomini soprattutto ma più in generale di altri esseri viventi;
Nonostante questo, però, l’uomo di natura è tutto conchiuso, per Rousseau, in una desolante singolarità: gli unici contatti che ricerca sono quelli finalizzati ad appagare il suo bisogno sessuali, così estemporanei da dissolversi tanto rapidamente quanto sono sorti. Per il resto è una vita completamente autarchica, assolutamente libera, priva di guerre ma anche di legami sociali, del tutto aliena dalla dimensione del lavoro, silente perché contrassegnata dall’incomunicabilità:
“Se per caso giungeva a qualche scoperta non sapeva a chi comunicarla, tanto più che non riconosceva neanche i propri figli. L’arte periva con l’inventore, non c’era educazione né progresso, le generazioni si moltiplicavano inutilmente, e, poiché ognuna partiva dallo stesso punto, i secoli scorrevano in tutta la rozzezza delle prime età; la specie era già vecchia e l’uomo restava bambino”
Perché, allora, questa condizione di mirabile e inconsapevole autosufficienza non si dà ancora oggi? Perché l’uomo di natura, oltre a essere libero, a volere e a scegliere, ha anche l’attitudine a migliorarsi, a perfezionarsi. E il primo passo in questo cammino di perfezionamento lo compie nel tentativo di fronteggiare le difficoltà che la natura gli pone innanzi. È qui che iniziano la raccolta, la caccia e la pesca, che si scopre il fuoco per scaldarsi, ci si unisce e ci si associa, si sperimentano le prime forme di linguaggio e di legami sociali. Quella che Rousseau definisce la prima rivoluzione è la nascita di una società che, a posteriori, potremmo definire preistorica, un consorzio dove sorgono famiglie e tribù, dove gli uomini conoscono sentimenti primordiali quali l’amore per la donna o per i figli ma anche la vanità e l’invidia che portano con sé le prime, embrionali, forme di disuguaglianza. È questa società nascente, che Rousseau considera come l’epoca più felice dell’umanità, quella che più somiglia al nuovo mondo:
“Più ci si riflette, più si trova che questa condizione era […] la migliore per l’uomo […]. L’esempio dei selvaggi, che sono stati trovati quasi sempre a questo stadio, sembra confermare che il genere umano era fatto per restarvi indefinitamente, che questa è la vera giovinezza del mondo”.
Più che l’uomo di natura, dunque, è soprattutto questo il tipo umano che, nell’opera di Rousseau, illustra il mito del buon selvaggio: uomo sociale e socializzato sì, ma appartenente ancora a una civiltà aurorale che molto deve ai ritratti idilliaci dei buoni selvaggi realizzati nei secoli precedenti da esploratori curiosi e missionari misericordiosi. Ci metterà poco a perdere la purezza che ancora gli rimane: la disuguaglianza che già serpeggiava nell’ombra nelle prime forme associative maturerà i suoi frutti amari nella seconda grande rivoluzione dell’umanità – quella della metallurgia e dell’agricoltura – che porta con sé la divisione del lavoro e la proprietà privata.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il mito del buon selvaggio e l’origine della disuguaglianza tra gli uomini in Rousseau: significato e dove ne parla
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