

Marco Proietti Mancini è nato a Roma nel 1961. Ha pubblicato i romanzi “Da parte di Padre”, “Gli anni belli”, “Il coraggio delle madri”, “Oltre gli occhi” e la raccolta di racconti “Roma per sempre”. Ha partecipato a numerose antologie e raccolte di racconti ed è stato il curatore delle raccolte “Romani per sempre” e “Storiacce romane”. Suoi articoli e recensioni sono presenti sui portali Cultora.it e Liberarti.it.
Esce oggi 5 settembre “La terapia del dolore” (Historica Edizioni, pp. 252, euro 16,00) quinto romanzo dello scrittore romano che qui affronta con successo un tema delicato, certamente non facile da trattare.
“Sono un uomo assolutamente inutile, a me stesso e a chiunque altro”.
Eppure, nonostante ciò, questa vicenda che riguarda un individuo che aveva eretto attorno a sé una barriera difensiva per non soffrire, raccontata con lucido e commovente realismo, insegna al lettore che a volte sono più ingombranti “le stampelle mentali” piuttosto che quelle di legno.
“Intorno a me esiste una vita intera che si è sospesa, non solo la mia”.
Abbiamo intervistato l’autore.
- “Non riesco a tener dietro a questo mondo ed è subito sera per quanto corra, non riesco a raggiungerlo”. Per quale motivo ha scelto come esergo del volume un verso del poeta berbero algerino Si Mohand ou-Mhand?
In realtà in origine volevo rendere omaggio a Salvatore Quasimodo; è stato documentandomi sulla sua Ed è subito sera che ho scoperto che lui stesso si era a sua volta ispirato al componimento di Si Mohand ou-Mhand. I versi del poeta algerino mi hanno sedotto ancora più di quelli di Quasimodo e mi hanno reso immediatamente l’immagine di un cambiamento subito e non desiderato, repentino tanto da apparire violento. Lo stesso cambiamento che il protagonista del romanzo subisce, entrando in una “sera della vita” che durerà fino alla sua rinascita, in un’alba che lo vedrà uomo nuovo e diverso.
- La frase che ha inserito nelle prime pagine del testo: “E dacci oggi il nostro male quotidiano perché diventi per noi insegnamento a vivere godendo di ogni bene, di ogni gioia, ogni speranza” è significativa. Esiste dunque una “terapia del dolore”?

Io non so se esista. Certamente non auguro a nessuno di provarla, neanche a chi lo meriterebbe come unica possibile cura ai suoi mali, o magari essendo lui stesso il male. Certo è che alcuni dolori sono inevitabili e non esiste uomo che non sia destinato a provare sofferenze nella vita, più o meno grandi, atroci in alcuni casi. Allora sento, più che pensare è un sentire, che l’unico modo che abbiamo per provare a salvarci dal dolore è dargli un senso. Usarlo come terapia, l’amaro che sappia farci apprezzare il dolce, il male che possa aiutarci a capire quanto bene abbiamo già, e che non apprezziamo, ignorandolo, banalizzandolo, considerandolo un diritto dovuto. Non credo esista un diritto alla felicità, ma credo esista un diritto a provare a ottenerla, in qualsiasi modo, anche attraverso il dolore.
- “Nessuno dovrebbe sentire il rumore delle proprie ossa mentre si spezzano”. Quando il protagonista del romanzo subisce l’incidente, si trovava in un punto particolare della propria esistenza?
Il punto di non ritorno. La bonaccia che uccide e non salva, che non porta da nessuna parte e diventa una inconsapevole resa, un abbandono. Nelle pagine ho provato a ricostruire la vita del protagonista, le tappe e le storie vissute, l’inerzia a cui si è lasciato andare, che si è trasformato in cinismo e pessimismo, ma senza neanche il gusto di aver scelto di essere così. È un uomo morto, senza nessun reale interesse o passione. Infelice senza neanche rendersi conto di esserlo. Il dolore è la terapia che gli restituisce l’energia per rinascere.
- Nella pagina dei ringraziamenti definisce il romanzo, un “viaggio narrativo, tanto diverso dal mio solito”. Desidera chiarire la Sua riflessione?

Negli anni e nelle mie esperienze narrative, in qualsiasi delle forme che ho usato per esprimermi, ho sempre trovato qualcuno che ha pensato di appiccicarmi un’etichetta, di definirmi rappresentante di un “genere”. Per quello che scrivo sui Social Network, mi sono sentito dare dello smielato romantico. Per la “trilogia” di Benedetto ed Elena invece mi hanno classificato come autore romantico o storico, questo nonostante io abbia voluto cimentarmi anche nei racconti, alcuni molto violenti e crudi. Insomma, c’è sempre qualcuno che da un singolo aspetto di quello che esprimo pensa di potermi classificare e giudicare come mi conoscesse totalmente. Ecco perché mi piace spiazzare prima di tutto me stesso, scrivendo storie che per me sono sperimentazione e mettermi alla prova.
Il rischio - di cui sono consapevole - è quello di deludere chi si aspetta da me sempre e solo la stessa cosa. L’opportunità è di dimostrare che io - come ogni uomo - non ho un solo lato e aspetto, ma posso essere tante cose. Che posso scrivere e sentire e provare tante cose, che messe insieme mi rendono quello che sono e che nessuno può affermare di conoscere. Se neanche io mi conosco del tutto, come può chi legge un solo aspetto di me, giudicarmi?
“La terapia del dolore” sarà presentato oggi, 5 settembre, alle ore 18,30, presso la libreria Cultora di Roma, via Ughelli 39 (quartiere Appio Latino), relatrice Annamaria Torroncelli.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La terapia del dolore”: Marco Proietti Mancini racconta il suo nuovo libro in un’intervista
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