“La vera casa dell’uomo non è la casa, ma la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi” era solito dire Bruce Chatwin, lo scrittore-viaggiatore che oggi, 13 maggio, se fosse ancora in vita compirebbe ottantadue anni.
Avrebbe voluto scrivere un libro sul nomadismo che tuttavia alla fine abbandonò, ritenendolo impubblicabile. In compenso di quel “libro non scritto” Chatwin ce ne ha lasciate le tracce disseminandole tra appunti, bozze, annotazioni sparse e soprattutto nelle frasi dedicate al viaggio che ricorrono, come una costante, in tutte le sue opere.
Il senso del viaggio secondo Bruce Chatwin
Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma.
Con questa convinzione impiantata come un chiodo nella testa Bruce iniziò a viaggiare per il mondo all’età di ventisei anni. Per farlo lasciò un lavoro sicuro da Sothesby’s, la storica casa d’aste londinese, e si iscrisse alla facoltà di archeologia presso l’università di Edimburgo. Da quel momento iniziarono i viaggi in territori esotici, inesplorati, talvolta insidiosi come l’Africa e l’Afghanistan. Il deserto era una delle sue passioni, solo in quella distesa sconfinata di sabbia gli pareva di riuscire a sentire qualcosa di simile alla pace, una pace immensa e primigenia che doveva avere una derivazione divina. Chatwin viaggiava libero come una farfalla, con uno zaino sulla spalla e i piedi come unico mezzo: era un uccello migratore. Capì presto che solo perdendosi era in grado di ritrovarsi.
Nel suo libro-capolavoro In Patagonia scrisse:
Chi percorre il deserto scopre in se stesso una calma primitiva (nota anche al più ingenuo dei selvaggi), che è forse la stessa cosa della Pace di Dio.
In Patagonia: la Bibbia dei viaggiatori
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Nel 1973 fu assunto dal Sunday Times Magazine come consulente di arte e architettura. Una professione che gli calzava a pennello, come un abito fatto su misura perché gli permetteva di viaggiare e, al contempo, di esercitare il suo talento nascosto: la scrittura.
Fu proprio mentre realizzava un’intervista per il Sunday Times che Chatwin ebbe l’ispirazione per intraprendere il suo viaggio più epico e rischioso: un viaggio ai confini del mondo. Si trovava a Parigi per intervistare l’architetto novantatreenne Eileen Gray. Nello studio della donna notò una gigantesca mappa dipinta; animato dalla curiosità Chatwin le chiese di quale terra si trattasse. La signora Gray gli rispose che si trattava della Patagonia, un territorio che avrebbe tanto voluto visitare, ma ormai il suo tempo era scaduto, poteva recarvisi solo con l’immaginazione.
La donna quindi fece fare a Bruce una promessa, che suonava come una sfida: “Ci vada lei al posto mio”. Lui non se lo fece ripetere due volte. Mandò un telegramma al Sunday Times con scritto semplicemente: “Vado in Patagonia”. Il giorno seguente era già partito alla volta del Sud America.
Vi rimase sei lunghi mesi e il risultato di quell’esperienza fu un libro oggi considerato la Bibbia dei viaggiatori, In Patagonia, pubblicato nel 1977. Con il pretesto di dover dare la caccia a un misterioso reperto, un frammento di pelle di milodonte che Chatwin dichiarò di aver visto da bambino in casa della zia, l’autore compose un vero e proprio inno al vagabondaggio. In Patagonia è un romanzo composito, ricco di divagazioni storiche e sociologiche e soprattutto di descrizioni mozzafiato.
Il romanzo di Chatwin fu premiato con il Hawthornden Prize come il “miglior libro di immaginazione”: la Patagonia all’epoca era considerata ancora un territorio immaginifico, una terra che apparteneva alla fantasia, alla geografia interiore di ogni essere umano. Il “Non-luogo” lo definiva Borges. Era un luogo del nulla dal quale tuttavia lo scrittore-viaggiatore seppe trarre tutto il necessario, il senso stesso della vita.
La Patagonia! È un’amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un’ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più.
Recensione del libro
In Patagonia
di Bruce Chatwin
L’anatomia dell’irrequietezza di Bruce Chatwin
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Il viaggio per Chatwin divenne la vita stessa. Non smise mai di teorizzare, in tutti i suoi scritti, l’idea della felicità dei popoli nomadi. L’uomo libero sceglie di spostarsi, secondo lo scrittore, non di soggiacere all’abitudine e alla sedentarietà.
La sua concezione emerge in modo particolare nel libro Anatomia dell’irrequietezza (Adelphi, 2005) una raccolta di scritti che si trasfondono in un autentico elogio all’arte del viaggiare. In questo libro viene presentata “l’alternativa nomade”, ovvero il senso stesso del viaggio secondo Bruce Chatwin. In una famosa lettera al suo editore Tom Maschler, l’autore presentava il nomadismo come il suo ideale di vita.
L’anatomia dell’irrequietezza è una raccolta di scritti eterogenei: appunti di viaggio, schizzi, fotografie, recensioni, lettere e riflessioni. L’opera fu pubblicata postuma nel 1996 e da molti venne considerata il “manifesto spirituale” dello scrittore inglese.
Il nomade rinuncia; medita in solitudine; abbandona i rituali collettivi e non si cura dei procedimenti razionali dell’istruzione o della cultura. È un uomo di fede.
In queste pagine irrequiete si può ritrovare anche il fil rouge del famoso “libro sui nomadi” che Chatwin ritenne “impubblicabile”. In quell’opera voleva presentare la dialettica culturale tra civiltà e alternative naturali, tra città e tribù selvagge. È in fondo la storia che Bruce Chatwin scrisse per tutta la vita, camminando sulle proprie gambe, esplorando la vastità dei deserti. Tutti i grandi autori lasciano un romanzo incompiuto, si dice.
In realtà il “libro non scritto” di Chatwin è proprio qui, sotto i nostri occhi, è una mappa tracciata dell’inquietudine interiore, un’ode all’erranza che trova sfogo nella scrittura. Lui lo scrisse per tutta la vita - lo scrisse attraverso la sua stessa vita - senza accorgersene.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cos’è il viaggio secondo Bruce Chatwin
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