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Significato di parole, proverbi e modi di dire

Chi sono gli ignavi?

Chi sono gli ignavi? Scopriamo insieme la definizione di questo termine e che cosa ha a che fare con la Divina Commedia di Dante Alighieri.

Ilaria Roncone
Ilaria Roncone Pubblicato il 04-06-2019
Chi sono gli ignavi?

Cosa significa ignavo? Questo termine viene spesso utilizzato durante le lezioni di letteratura, nello specifico quando si parla dell’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri. Gli ignavi, infatti, altro non sono che una categoria di peccatori incontrata dall’autore nel suo viaggio di fantasia nel regno dell’oltretomba nella parte dell’Antinferno. La Treccani definisce un ignavo come una persona pigra, indolente nell’operare per una questione di mancanza di volontà e di forza spirituale. Un sinonimo di ignavo può essere codardo. Nella Divina Commedia, invece, Dante definisce gli ignavi come “l’anime triste di coloro Che visser sanza infamia e sanza lodo”.

Gli ignavi nella Divina Commedia

Gli ignavi trovano ampio spazio nel canto III dell’Inferno. Nell’idea di oltretomba di Dante gli ignavi sono quelle persone che nella vita non hanno mai agito né per il bene né per il male, non hanno mai avuto né espresso idee proprie e si sono sempre adeguati alla massa, all’idea del più forte. Tra gli ignavi di Dante sono collocati anche gli angeli che, quando fu tempo, non si schierarono nella battaglia tra Lucifero e Dio.
Dante Alighieri colloca gli ignavi nell’Antinferno poiché li reputa indegni di qualunque cosa, sia delle gioie del Paradiso che delle pene dell’Inferno: non essendosi mai schierati nella loro vita, infatti, non possono appartenere a uno schieramento una volta morti.

La punizione prevista per gli ignavi dall’autore prevede che essi vaghino nudi per l’intera eternità inseguendo un’insegna che si muove rapidissima e gira su se stessa mentre vengono punti da mosconi e vespe. Oltre a questo, il loro sangue mischiato alle lacrime viene succhiato via da fastidiosi vermi.
Dante classifica questo tipo di peccatori come coloro "che mai non fur vivi", disprezzandoli in maniera totalizzante. Da cosa deriva tutto questo accanimento dimostrato da Dante? Perché, secondo un punto di vista teologico, la scelta tra Bene e Male deve obbligatoriamente essere presa; da un punto di vista sociale, poi, nel Medioevo lo schieramento politico del cittadino e la sua conseguente vita attiva erano considerate tappe obbligate per ognuno. Un uomo che nasce come essere sociale si sottrae ai suoi doveri verso la società a quel punto, secondo la riflessione dell’autore, non è degno di considerazione alcuna.

Nella Divina Commedia viene citato da Dante anche un personaggio considerato misterioso, definito come colui che "fece per viltade il gran rifiuto". Secondo molti studiosi contemporanei il riferimento fatto dal celebre autore riguarda Papa Celestino V, un eremita che nel 1294 raggiunse il Soglio Pontificio ma che, non ritenendosi capace di adempiere ai compiti che la carica di papa comportava, ha rinunciato all’ufficio consentendo, in questo modo, l’ascesa al potere di Bonifacio VIII, un papa che Dante disprezzava in maniera netta. Già dal secolo successivo, però, questa interpretazione perse di vigore e quest’anima di colui che fece "il gran rifiuto" smise di avere un’identità definita. Sono molte le interpretazioni possibili, a ben vedere, compreso che si trattasse dell’anima di Ponzio Pilato (che giudicò Gesù Cristo nei momenti seguenti la sua cattura) o quella di Esaù (che rifiutò la sua primogenita barattandola con un piatto di lenticchie).

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