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Storia della letteratura

“Saluto e augurio” di Pier Paolo Pasolini: il dialogo tra un poeta e un fascista

“Saluto e augurio” è un testo poetico che mostra Pasolini disponibile al dialogo con un giovane fascista. A costui il poeta parla con una volontà precettistica che evidenzia la difesa dei valori della tradizione.

Federico Guastella
Federico Guastella Pubblicato il 04-09-2023

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“Saluto e augurio” di Pier Paolo Pasolini: il dialogo tra un poeta e un fascista

La raccolta La nuova gioventù di Pier Paolo Pasolini comprende la poesia intitolata Saluto e augurio, definita da Stefano Agosti (2004:62)

Una precisa allusione per antifrasi alla Diversità massima, alla Diversità diversa dalla Diversità

Questa lirica mostra un Pasolini disponibile al dialogo con un giovane fascista, ossia con chi ha scelto altre vie, diametralmente opposte alle sue, malgrado qualche affinità.

Saluto e augurio di Pasolini: testo e analisi della poesia

A è quasi sigùr che chista
a è la me ultima poesia par furlàn;
e i vuèj parlàighi a un fassista
prima di essi (o ch’al sedi) massa lontàn.

Nella traduzione:

È quasi sicuro che questa / è la mia ultima poesia in friulano; / e voglio parlare a un fascista / prima che io, o lui siamo troppo lontani.

Segue la descrizione di un ragazzo – uno studente, un borghese di città - scelto come interlocutore per un discorso testamentario:

Al è un fassista zòvin, / al varà vincia un, vincia doi àins: / al è nassùt ta un paìs, /e al è zut a scuela in sitàt.

È un fascista giovane, / avrà ventuno, ventidue anni: / è nato in un paese, / ed è andato a scuola.

Le caratteristiche fisiche e le qualità intellettuali sono ben delineate. Questi è alto e con gli occhiali; indossa il vestito grigio e porta i capelli corti.
Ama il sapere antico (il latino, il greco): perciò, è stato rifiutato dai contestatori di sinistra. Pasolini, identificandosi con Socrate, si rivolge al novello Fedro, utilizzando un tono pedagogico:

Ven cà, ven cà, Fedro.
Scolta. I vuèj fati un discors
ch’al somèa un testamìnt.
Ma recuàrditi, i no mi fai ilusiòns
su di te: jo i sai ben, i lu sai,
ch’i no ti às, e no ti vòus vèilu,
un còur libar, e i no ti pos essi sinsèir:
ma encia si ti sos un muàrt, ti parlarài [...]

Vieni, vieni qua Fedro. // Ascolta. // Voglio farti un discorso / che sembra un testamento. // Ma ricordati, io non mi faccio illusioni / su di te: io so, io so bene, / che tu non hai, e non puoi averlo, / un cuore libero, e non puoi essere sincero: / ma anche se sei morto, io ti parlerò.

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È consapevole il poeta della difficoltà del dialogo che gli appare problematico, ma non desiste dalla volontà di parlargli.
Anche lui ama gli studi classici, perciò gli chiede di non svegliarsi alla “modernità” e di mantenersi distante dal presente. I suoi sono insegnamenti o precetti, attinenti alla difesa del valore della tradizione, sono elencati come in una sorta di decalogo e il consiglio dato è quello di difendere il passato con la cura dei paletti di gelso, di ontano, in nome degli Dei, greci o cinesi.
Gli indicatori d’una ben precisa energia vitale sono abbastanza specifici:

Muori d’amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi. Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie abbandonate. Difendi il prato tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienla nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia, lo sai, è sapienza sacra. Difendi, conserva, prega! La Repubblica è dentro, nel corpo della madre [...] Che la tua camicia non sia nera, e neanche bruna. Taci! che sia una camicia grigia. La camicia del sonno. Odia quelli che vogliono svegliarsi, e dimenticarsi delle Pasque… Dunque, ragazzo dai calzetti di morto, ti ho detto ciò che vogliono gli Dei dei campi. Là dove sei nato. Là dove da bambino hai imparato i loro Comandamenti. Ma in Città? Là Cristo non basta. Occorre la Chiesa: ma che sia moderna. E occorrono i poveri.
Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo, tra prati e palazzi dove non arrivi la parola del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; ama il loro dialetto inventato ogni mattina, per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria. Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio. Dentro il nostro mondo, dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, o un soldato senza violenza [...] Credi nel borghese cieco di onestà, anche se è un’illusione: perché anche i padroni hanno i loro padroni, e sono figli di padri che stanno da qualche parte nel mondo. È sufficiente che solo il sentimento della vita sia per tutti uguale: il resto non importa, giovane con in mano il Libro senza la Parola.

Sono queste parole dirompenti di forte impegno educativo; parole d’amore per la vita, di sogno e di rivoluzione interiore, fondatrici di una “polis” rispettosa delle diversità, di una comunità non escludente e aperta all’accoglienza della povertà.

Dopo avere usato il latino della tradizione (“Hic desint cantus”), Pasolini conclude:

// Ciàpiti su chistu pèis, fantàt ch’i ti mi odiis: / puàrtilu tu. Al lus tal còur. E jo ciaminarai / lizèir, zint avant, sielzìnt par sempri / la vita, la zoventùt

(Prenditi tu questo, ragazzo che mi odi: / portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò / leggero, andando avanti, scegliendo per sempre / la vita, la gioventù).

Il punto d’arrivo è dunque la leggerezza che si acquisisce con la liberazione dal proprio sapere. Non appartiene più a Socrate vecchio. Avendolo trasmesso al Puer, cioè al discepolo, non è più suo, ed è così che l’uomo può guadagnare la sua libertà.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Saluto e augurio” di Pier Paolo Pasolini: il dialogo tra un poeta e un fascista

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