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Curiosità per amanti dei libri

Palazzo d’Avalos a Procida: il carcere che ispirò Elsa Morante

Nell'appuntamento estivo con i viaggi letterari vi portiamo a Procida per scoprire il lato meno ridente dell'Isola di Arturo narrata dalla Morante. Stiamo parlando di Palazzo d'Avalos, l'edificio che domina il complesso di Terra Murata. Sicuri di conoscere tutti i suoi misteri?

Alice Figini
Alice Figini Pubblicato il 17-07-2023
Palazzo d'Avalos a Procida: il carcere che ispirò Elsa Morante

Nell’appuntamento estivo con i viaggi letterari vi portiamo a Procida per scoprire il lato meno ridente dell’Isola di Arturo narrata da Elsa Morante. Stiamo parlando di Palazzo d’Avalos, l’edificio cinquecentesco che domina il complesso di Terra Murata nella parte più alta dell’isola. Il grande palazzo borbonico se ne sta abbarbicato come un gufo sulla scogliera battuta eternamente dalle onde; si leva minaccioso e sembra vegliare sul territorio circostante, oltre la facciata variopinta dai colori pastello di Marina Corricella, l’antico borgo marinaro sul porto di Procida. Basta sollevare un attimo lo sguardo dal paesaggio da cartolina che sembra dipinto ed ecco si scorge il profilo imponente di Palazzo d’Avalos, come un sinistro presagio.

In origine fu la ricca dimora della famiglia d’Avalos, in seguito fu adibito a riserva di caccia e poi a scuola militare; nel corso dei secoli subì innumerevoli trasformazioni sino a divenire luogo di detenzione penale sotto il regno di Ferdinando II di Borbone. Palazzo d’Avalos divenne noto come carcere, ruolo maledetto che rivestì per buona parte della sua storia, fu infatti chiuso definitivamente in tempi recenti, nel 1988, quando furono rese note le condizioni disumane in cui versavano i detenuti.
Al suo interno, nella costante penombra che lo contraddistingue, pare di udire ancora l’eco degli schiocchi e degli strascichi delle catene e il lamento dei prigionieri che vi erano rinchiusi.
Non c’è da stupirsi, in effetti, che l’edificio borbonico fu d’ispirazione per Elsa Morante che nell’Isola di Arturo, romanzo con cui vinse il Premio Strega nel 1957, lo rese protagonista della storia. La presenza oscura della prigione aleggia come un fantasma in tutto il libro rivelando la sua importanza solo nel finale.

Il segreto letterario di Palazzo d’Avalos è custodito nelle pagine di Morante; ma conoscete tutti i suoi misteri?

Palazzo d’Avalos: la storia

L’imponente edificio, con le sue solide mura, fu eretto nel Cinquecento dagli architetti Cavagna e Tortelli per divenire la dimora della famiglia d’Avalos, i governatori dell’isola fino al Settecento che trasformarono l’antico borgo procidano di Terra Casata in Terra Murata. Palazzo d’Avalos era dunque in origine una splendida residenza gentilizia, in cui si svolgevano banchetti e ricevimenti; ma era anche un’inespugnabile fortezza, privilegiata dalla sua posizione in assetto di vedetta, capace di difendere l’intera isola dagli assalti nemici o dagli agguati pirateschi.
Nel 1736 passò nelle mani di Carlo III di Borbone che lo trasformò dapprima in casino di caccia e, in seguito, nella propria residenza estiva. La sua imponente architettura, dagli alti soffitti rinascimentali, testimonia ancora gli antichi splendori di un passato glorioso. Dopo la decadenza borbonica nel 1816 l’edificio fu convertito a scuola militare e, infine, adibito a carcere penitenziario di massima sicurezza dello Stato italiano. Da quel momento su Palazzo d’Avalos si allungò una fama sinistra, che non l’avrebbe mai del tutto abbandonato.

Aggirandosi tra le sue mura oggi si avverte un presagio angoscioso, come se le sofferenze patite tra le sue celle ancora non avessero abbandonato del tutto il luogo. Gli interni non recano più la ricchezza fastosa delle origini, ma ci presentano i muri scrostati, sguarniti, i pavimenti ricoperti di polvere e foglie morte. Palazzo d’Avalos viene conservato in uno stato di solenne abbandono, che rende onore alla sua storia. Tra le sue stanze sono conservate le pile delle divise grigie, tutte uguali, dei carcerati e le loro scarpe lacere, che sembrano ancora recare l’impronta di corpi ormai scomparsi. Alle finestre affacciate sul mare le sbarre che ripropongono a noi visitatori ignari la pena che dovevano patire, quei poveretti, a dover fissare da reclusi quello scenario azzurro che prometteva un’infinita libertà per loro perduta per sempre. Chissà come dovevano bruciare i loro occhi, nella penombra, esposti al bagliore di tutta quella luce. Dalla loro cella vedevano solo il mare; che gioia, che agonia.

Palazzo d’Avalos oggi: tra storia e arte

Oggi Palazzo d’Avalos è aperto ai visitatori che possono percorrere il cortile, la caserma della Guardie, visitare l’edificio delle celle singole scoprendo registri impolverati, abiti carcerari, armadietti arrugginiti, in un luogo in cui tutto sembra essere rimasto intatto - coperto appena da un velo di polvere - come se il tempo si fosse fermato. C’è persino la camionetta, ormai arrugginita, che accompagnava i prigionieri dal porto sino al luogo della loro pena, menzionata da Morante nella sua Isola di Arturo.
La parte superiore dell’edificio ora è stata adibita a galleria d’arte moderna e contemporanea, ospita videoinstallazioni e opere artistiche dall’impronta ecologica.
Tra le opere più recenti che vi sono esposte troviamo Il nido di Michele Iodice, un’installazione realizzata esclusivamente con materiali naturali provenienti dall’isola, rami di ulivo, nespolo, alloro e mirto, che racconta la relazione naturale tra “l’abitare” e il paesaggio, proponendo anche una riflessione sulla circolarità dell’esistenza umana.

Ancora più scenografica è l’opera di Alfredo Pirri, intitolata 7.0, che trasforma una delle finestre del palazzo ormai ridotte a larghi buchi nel vuoto in un capolavoro di poesia. Due grandi lastre di vetro in cui sono state intrappolate delle piume di uccello tramutano l’antica prigione di Palazzo d’Avalos in un canto di libertà. Le piume bianche riflettono la luce dorata del sole all’orizzonte che balugina sulla superficie cristallina del mare: eccola la libertà agognata dai prigionieri, un sogno segreto e doloroso a lungo custodito dietro le inferriate.

Palazzo d’Avalos e l’Isola di Arturo

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Palazzo d’Avalos ha un ruolo chiave nel romanzo di Elsa Morante: tra le mura del penitenziario borbonico è infatti rinchiuso il segreto che sconvolgerà la vita del giovane protagonista Arturo Gerace. Da narratrice navigata, Morante menziona più volte Palazzo d’Avalos nel corso della sua storia, facendo riferimento alla sua presenza sinistra. Al lettore viene spesso il sospetto che quel luogo conservi innominabili misteri; ma il penitenziario appare distante dall’Eden di Procida e dall’esistenza panica e selvatica condotta da Arturo che corre tra le fronde e il mare seguito dalla fidata Immacolatella.
Soltanto nel finale il vaso viene finalmente scoperchiato; il segreto rivelato. Sarà proprio Palazzo d’Avalos a rivelare ad Arturo il vero volto del padre, Wilhelm, da lui immaginato nell’infanzia come un eroe, un prode condottiero sempre pronto a partire alla volta di nuovi mondi. Infine scopriamo che Wilhelm, in realtà, durante i suoi lunghi viaggi non si allontanava mai troppo dall’isola di Procida e, in particolare, la sua meta era proprio Palazzo d’Avalos dove era rinchiuso l’uomo che ama, il carcerato Tonino Stella.

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Wilhelm si avvicina al penitenziario e chiama l’uomo con un fischio a cui lui subito risponde; Arturo, che lo segue di nascosto a distanza, si sente tradito da quel gesto, scoprendo che il linguaggio segreto tra lui e il padre non apparteneva soltanto a loro. Tonino Stella, però, non ricambia l’amore di Wilhelm né la sua devozione, al contrario ne approfitta e, deridendo l’uomo che si strugge d’amore per lui, lo chiama “parodia”: “Vattene, Parodia!” gli urla infatti dalla cella di Palazzo d’Avalos. Tra le mura della prigione di Procida Elsa Morante intesse con sapienza una storia d’amore e morte, senza ammantarla di spiegazioni morali né addolcirla con false promesse di lieto fine. Nella conclusione del romanzo Arturo in procinto di partire ripensa al padre, immaginandolo invecchiato e sempre bello, ma sempre adorante di quell’uomo che con disprezzo gli dice “Parodia”.

È Palazzo d’Avalos a spezzare l’incanto della favola, ad allontanare per sempre Arturo dal regno dell’infanzia e dall’immagine fantastica del padre. Tra le sue mura non era custodito un fantasma né un mistero, ma un uomo in carne ed ossa, un uomo vivo, cui però Morante affida un ruolo malvagio e insidioso, lo stesso che si attribuisce ai malvagi e agli spettri impertinenti. Il carcerato Tonino Stella sovverte tutte le certezze, rivela la realtà in tutta la sua crudezza. È lui a portare via ad Arturo suo padre, senza più la promessa agognata di un ritorno.

Pensando al padre, che neppure Nunziata aveva amato, Nunziata che amava un altro, si convinse che per Arturo Gerace il più bello del mondo sarebbe stato lui, fosse anche diventato vecchio e rugoso. Non poteva continuare a macerarsi e fu preso da una smania improvvisa di partire, avvertendo di avere definitivamente alle spalle il mondo magico della sua infanzia.

Il segreto rivelato, infine, condurrà lo stesso Arturo ad abbandonare per sempre l’isola di Procida che, ormai, gli è divenuta estranea.

Il ragazzo pregò Silvestro di avvistarlo quando Procida non si sarebbe più vista perché preferiva pensare che non fosse mai esistita. Penso che nulla di quanto ci è stato narrato avrebbe potuto essere espresso con parole diverse che sono la precisa traduzione del linguaggio dell’anima.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Palazzo d’Avalos a Procida: il carcere che ispirò Elsa Morante

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