Olivia
- Autore: Dorothy Strachey
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2024
Olivia di Dorothy Strachey è un piccolo gioiello letterario, edito per la prima volta nel 1949, ora riscoperto da Astoria edizioni che lo riporta in libreria con una prefazione firmata da André Aciman e l’ormai classica traduzione di Carlo Fruttero.
Un libro che sprigiona la forza degli amori impossibili e si legge d’un fiato, ma lascia un senso di malinconia da cui è difficile sfuggire, che rimane addosso, impalpabile come un profumo.
La scrittura di Dorothy Strachey, che pubblicò questa sua opera prima in età decisamente avanzata per una singolare serie di circostanze, è lirica, evocativa, tanto intensa, nella sua capacità di descrivere e raccontare, da risultare struggente.
Il libro fu scritto nel 1933 e pubblicato nel 1941, quando l’autrice aveva ormai più di ottant’anni, rigorosamente sotto anonimato. Si ha l’impressione che la scrittrice abbia davvero trasfuso l’anima nelle parole, tanto la voce di Olivia (o forse dovremmo dire Dorothy?) ci giunge nitida - appassionata, a tratti incerta, dolente - attraverso le pagine.
Del resto l’autrice aveva molte caratteristiche in comune con la sua protagonista, a partire dalla frequentazione, in età scolare, di un certo collegio francese: la scuola femminile Marie Souvestre di Les Ruches, che nel libro diventa Les Avons.
L’intero contenuto del romanzo è già racchiuso, a ben vedere, nella sua epigrafe, una citazione del moralista francese Jean de La Bruyère:
L’on n’aime bien qu’une seule fois, c’est la première; les amours qui suivent sont moins involontaires.
Non si ama che una sola volta, la prima; gli amori che seguono sono meno involontari. Il fuoco del primo amore è la forza invisibile che permea e anima le pagine di Olivia, solo che si tratta di un amore indicibile – e perciò scandaloso – poiché la sedicenne si innamora di una sua istitutrice, l’insegnante di francese: Mademoiselle Julie, donna colta ed enigmatica, che tra l’altro non sembra essere indifferente al sentimento della ragazza. Scivoliamo così nella spirale dei dubbi e dei batticuori della giovane che cerca di respingere le proprie emozioni e, a tratti, invece vi cede con passionalità disperata, come quando si aggrappa piangendo alle mani di Mlle Julie e singhiozza: Je vous aime, “Vi amo”.
“L’amore vero si dispera o va in estasi per un guanto perduto o per un fazzoletto ritrovato”, scriveva Victor Hugo ed è proprio quanto accade nelle pagine di Olivia in cui un guanto, uno sguardo, un passo avvertito in lontananza nel cuore della notte acquisiscono un significato ulteriore, determinante, e spesso culminano in un brivido che pervade tutto il corpo con l’evidenza di una verità. Anche il lettore si ritrova soggiogato da questa passione animata da un sentimento indecifrabile, ma tenace – e indubbiamente autentico.
Aggiungeva Hugo, nella medesima citazione: “L’amore vero ha bisogno dell’eternità per le sue devozioni e le sue speranze”. Questo libro è quella promessa d’eterno amore e devozione. Le descrizioni di Mlle Julie sono così vivide che ci pare di vederla muoversi e parlare, voltarsi d’improvviso verso di noi o chiudere gli occhi; la donna ci viene restituita attraverso dei dettagli struggenti che solo una mente innamorata potrebbe cogliere. La sua presenza è ancora viva, impressa sulle pagine così come doveva esserlo nella mente di colei che l’aveva amata e aveva interpretato ogni suo gesto alla stregua di una questione di vita o di morte, di un’ascesa al paradiso o di una condanna all’inferno. La penna di Dorothy Strachey attraversa il confine tra realtà e scrittura nel tentativo di restituire la vita a un essere molto amato: Olivia inizia come un memoriale, rispondendo all’assillo della confessione, comincia alludendo a “ciò che mi accadde durante l’anno di scuola che passai in Francia” e si conclude al presente “il tagliacarte d’avorio è qui sulla mia scrivania, mentre scrivo queste parole”. A suggellare il testo è un nome, scritto in stampatello maiuscolo: JULIE, che infine possiamo leggere con un’intenzione precisa; è lei la dedicataria dell’opera, cui fin dal principio il romanzo è votato come “un’offerta sull’altare dell’assenza”.
Il tagliacarte d’avorio rappresenta il correlativo oggettivo del ricordo, quindi l’oggetto che innesca l’emozione – e di conseguenza la memoria – che dà avvio alla scrittura. Nella conclusione comprendiamo di non aver letto la “storia di Olivia”, ma un tentativo inesausto di resuscitare Mademoiselle Julie (o la persona reale mascherata dietro il nome fittizio), poiché tutto quanto accade alla protagonista passa attraverso il filtro della sua presenza ed è inscindibile da essa.
Eppure, a ben vedere, di questa donna ci viene detto molto poco: è l’oggetto di adorazione e, come tutti gli idoli, rimane intoccabile, il contatto con lei lascia appena uno spolverio dorato sulle mani. Olivia deve confrontarsi continuamente con l’enigma che Mlle Julie rappresenta: alcune delle pagine più struggenti del romanzo sono dedicate proprio alla sua irraggiungibilità. “Non riuscivo a immaginare come avrebbe potuto amarmi”, osserva a un certo punto la voce narrante, sconvolta dai propri stessi sentimenti.
Affezionarsi a me, volermi bene, come a una bambina, come a un’allieva, questo sì, naturalmente. Ma ciò non aveva nulla a che fare con quel che provavo io.
Il continuo slancio della protagonista verso la donna amata trova dinnanzi a sé una barriera ed è in questi momenti che Olivia ammette, con disperazione, di non sapere nulla dei pensieri di Mlle Julie né del suo passato o delle sue reali aspirazioni e comprende che vi è tra loro una “distanza” invalicabile.
Troviamo una scena molto bella, ambientata in treno, in cui Olivia spia Mademoiselle Julie addormentata di fronte a lei, cercando di interrogare il segreto nascosto dietro quelle palpebre abbassate, quel volto delicato e familiare, eppure in fin dei conti estraneo.
A che cosa pensava? Dietro quelle palpebre chiuse, quali immagini trascorrevano? Com’era stata la sua vita? Aveva sofferto?
La giovinezza ardente di Olivia, la sua ancor breve vita, si scontra con l’impossibilità anche solo di immaginare le esperienze vissute da una donna molto più grande di lei. L’impenetrabilità del suo oggetto d’amore genera un continuo tormento in Olivia, che cerca invano di superare sé stessa e, al contempo, va in estasi per una semplice stretta di mano.
Tutto perduto, dunque? No, perché a tratti si apre uno spiraglio ed è sufficiente per provare una felicità “scandalosa, intollerabile”. Ci sono le carezze di Mlle Julie, le attenzioni di Mlle Julie e, infine, quelle visite al capezzale di Olivia nel cuore della notte che la ragazza attende spasmodicamente come una ragione di vita; sino alla promessa sussurrata da Julie “Verrò da te stanotte”, che si tramuta in una cocente delusione, poiché quella visita attesa, sognata, a lungo bramata, di fatto non avverrà mai, gettando la povera Olivia nel completo sconforto.
Sarà proprio questa delusione, tuttavia, a dare origine a una delle scene più intense del romanzo, un momento di vera e propria climax per la quale l’autrice sceglie il procedimento del show don’t tell.
“Olivia”, disse con voce grave, “mi spiace di averti dato una delusione stanotte. Se non capisci perché l’ho fatto, non posso spiegartelo. Ma vorrei che tu capissi questo: sto cercando di agire per il bene di tutte e due.”
La scena è suggellata da un sussurro, parole pronunciate in un’altra lingua – la lingua dei sogni, dell’inconscio, che professa una verità dell’anima: “Je t’aime bien, mon enfant. Plus que tu ne crois”. Mlle Julie non dirà altro, forse perché ha già detto tutto; le pagine finali dell’addio non raggiungeranno mai l’intensità emotiva di questo istante che racchiude in sé ogni possibile spiegazione sull’enigmatico comportamento, talvolta scontroso, contraddittorio, apparentemente distaccato dell’istitutrice.
La narrazione, nella seconda parte, vira inaspettatamente nel giallo ed è forse qui che la storia cede il passo al “racconto”, la memoria sconfina nella verità “filtrata e trasposta”, annunciata dall’autrice nel capitolo introduttivo.
Come tutti i luoghi chiusi, estranei al resto del mondo e che sembrano vivere di vita propria, anche il collegio di Les Avons custodisce i suoi segreti, le sue gelosie, le sue rivalità. Una “morte sospetta” getterà in subbuglio l’intera scuola, conducendo a scelte irrevocabili e accelerando l’inevitabile distacco tra Olivia e Mlle Julie.
Il colpevole non sarà svelato; ma una soluzione ci viene forse suggerita nel continuo turbinio di ipotesi, nel gioco di specchi ingaggiato tra i vari personaggi che per la prima volta ci svelano volti deformati da pulsioni di morte inconfessabili.
Questo secondo tempo, in cui l’atmosfera oscura e quasi stregata del collegio si fa preponderante, mi ha ricordato in parte L’educazione fisica delle fanciulle, il film di John Irving del 2005 tratto dal romanzo di Frank Wedekind, Mine-Haha, edito da Adelphi. Il film di Irving, così come il libro, sebbene in maniera un po’ estremizzata, traduce il clima torbido che si doveva respirare nei collegi femminili di un tempo, tra desiderio represso, sentimenti indicibili e soffocati che prontamente esplodevano in gelosie accecanti e subdole rivalità o ambigui giochi di potere.
Tra le critiche recenti al romanzo di Strachey c’è chi ha insinuato che in realtà quello tra Olivia e Mlle Julie non sia amore, ma solo un’ardita fantasia nata dalla mente sovraeccitata della ragazza. Nient’altro che una chimera. “Chimères!” come esclama a un certo punto Mlle Julie dinnanzi alla disperata Olivia. Io credo che chi abbia letto il libro in questa maniera non l’abbia capito o, se non altro, non abbia colto i molteplici segnali lasciati tra le righe, i diversi show don’t tell disseminati dall’autrice: uno su tutti la grandiosa scena in cui Mlle Julie formula di fatto la sua confessione-dichiarazione affermando:
“L’ho fatto per il bene di tutte e due”.
In verità Olivia non ci sta narrando una storia d’amore, ma l’impossibilità dell’amore e questo spiega lo struggimento in cui anneghiamo, drammaticamente arresi, dopo il punto finale.
In poco più di cento pagine ci è stato narrato un sentimento fortissimo – capace di sopravvivere persino alla morte – dotato di tutta la complessità, ambiguità e delle varie sfumature di senso che costituiscono la sostanza materica dei sentimenti veri e, perdipiù, involontari, come l’amore al suo primo manifestarsi. La presenza oggettiva del tagliacarte d’avorio, nel finale, ne rappresenta la prova inconfutabile - ecco un altro show don’t tell - e sembra rivelarci la verità che avevamo avuto sotto gli occhi per tutta la durata della storia, ma che non abbiamo mai completamente afferrato.
Olivia di Dorothy Strachey è un ricordo che diviene futuro, la musica malinconica di un carillon che sempre si ripete, come il sortilegio ineffabile del primo amore.
Il libro fu dedicato dall’autrice: “to the very dear memory of Virginia W”, alla carissima memoria di Virginia Woolf.
Olivia
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