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Quel che resta della “Milano da bere” nei romanzi di Alessandro Robecchi e Gianni Simoni

“Milano da bere” è ancora oggi sinonimo di opulenza, sfarzo, competizione, arrivismo: un confronto tra gli ultimi romanzi di Alessandro Robecchi e Gianni Simoni ci mostra quanto possa essere cambiato, oggi, il volto del capoluogo lombardo.

Ornella Donna
Ornella Donna Pubblicato il 21-04-2017

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Quel che resta della “Milano da bere” nei romanzi di Alessandro Robecchi e Gianni Simoni

Milano da bere è un’espressione giornalistica, nata da una campagna pubblicitaria, che definisce alcuni ambienti sociali della Milano degli anni ’80, periodo in cui il capoluogo lombardo era sinonimo di egemonia e di poteri forti, caratterizzato dalla percezione di un benessere diffuso, dal rampantismo arrivista e opulento dei ceti sociali emergenti e da un’immagine “alla moda”. Alle atmosfere della Milano da bere fanno riferimento alcuni film italiani, tra cui Sogni d’oro di Nanni Moretti, Sotto il vestito niente, Yuppies e Via Montenapoleone, tutti di Carlo Vanzina e Bye Bye Baby di Enrico Orlandini.
Oggi Milano presenta ancora le stesse caratteristiche? Pare di no: lo dimostra un confronto tra due testi recenti ambientati nel capoluogo lombardo, “Torto marcio” di Alessandro Robecchi e “Tiro al bersaglio” di Gianni Simoni.

Milano è la vera protagonista del nuovo romanzo di Alessandro Robecchi, una Milano violenta e critica ma anche melanconica, che traspare da un noir pieno di suspense e di ironia. Tre sono i luoghi, vicini sulla mappa ma lontanissimi tra loro, in cui si svolgono le vicende che vedono protagonista Carlo Monterossi, autore televisivo di una trasmissione trash, cultore di Bob Dylan e detective per caso.
Tra le pagine di questo libro prendono forma il quartiere malfamato di San Siro, la questura e l’abitazione dello stesso Carlo che, per aiutare una sua collaboratrice nella ricerca di un anello rubato, si scontra con l’indagine sull’assassino dei sassi, condotta dalla polizia. La città, infatti, è sempre più in balia di un assassino seriale che si firma poggiando sul petto del cadavere un sasso bianco, tondo, levigato. E Carlo, “l’uomo curioso”, “l’uomo che risolve i problemi”, continua le sue perlustrazioni passando “da San Siro a Via Manzoni, dalle cantine degli alloggi popolari fino ad un albergo sul lago. Finché il cerchio si chiude amaramente, per tutti, perché

“È una città cattiva, sapete? Se venite qui, portatevi dei soldi!”.

Anche la Milano di Gianni Simoni, in “Tiro al bersaglio”, è una città cupa, violenta, solitaria, triste. Il commissario Lucchesi deve occuparsi di un droghiere assassinato in un tentativo di rapina compiuto da un giovane drogato e, poi, anche di un uomo massacrato nel divano della propria casa. Siamo nel quartiere milanese QT8, dove

“nel caseggiato a due piani era rimasta da un lato la farmacia, dall’altro un bar”.

Collegamenti torbidi emergono dalle indagini meticolosamente condotte dal commissario Lucchesi, da cui emerge una Milano grigia, amara e brutale, profondamente noir, dove, mentre in aria svolazzano colombi, tra le mura delle case e dei condomini si architettano terribili delitti, scatenati da una commistione di povertà, delinquenza e follia.

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