Il 9 gennaio 1908 nasceva a Parigi, in una stanza bianca di boulevard Raspail, Simone de Beauvoir. La Beauvoir scrittrice, tuttavia, sarebbe nata molto tempo dopo: il suo primo vagito fu un esordio tardivo, pubblicato nel 1943 da Gallimard, quando Simone aveva già compiuto trentacinque anni.
Il romanzo che segnò la venuta al mondo della Beauvoir scrittrice che oggi tutti conosciamo si intitolava L’invitata (nell’originale francese L’Invitée, Ndr) ed era stato concepito da Simone negli anni precedenti, la gestazione era iniziata nell’ottobre del 1938 e si era conclusa nell’estate del 1941, ma subì una lunga serie di rifiuti editoriali.
La famiglia non era favorevole alla pubblicazione e commentava con sdegno la sua età matura, che certo non si confaceva a un esordio. “Si sussurrava che ero un frutto secco” scrive Beauvoir nel secondo volume della sua autobiografia L’età forte e aggiunge che il padre era “disgustato”. Le aspirazioni intellettuali femminili non erano viste di buon occhio e in famiglia vigeva la convinzione, a maggior ragione in una famiglia borghese o aristocratica preoccupata del decoro sociale, che la scrittura delle donne dovesse restare privata, relegata alla dimensione intima o domestica.
Questo primo libro, pubblicato nel 1943, segnò un punto di svolta nell’esistenza di Simone de Beauvoir: da quel momento si sarebbe dedicata completamente alla scrittura. Aveva abbandonato l’insegnamento, in seguito a uno scandalo che la vedeva coinvolta in una relazione con un’alunna, e si preparava a vivere la vita che aveva sempre desiderato, quella di una “donna scrittrice”, ovvero, come scrive nel terzo capitolo della sua autobiografia La forza delle cose:
Il fatto è che sono una scrittrice: una donna scrittrice non è una donna di casa che scrive, ma qualcuno la cui intera esistenza è condizionata dallo scrivere.
Alla fine dei suoi Cahiers de jeunesse, Beauvoir confessava di voler compiere con la scrittura di un libro lo stesso miracolo di Proust. Il suo intento era quello di “salvare gli occhi di una bambina”, proprio come Marcel Proust aveva restituito l’eternità dei quadri di Elstir e dell’arte della Berma. Quella “bambina” cui faceva riferimento Beauvoir si chiamava Olga Kosakiewicz; a lei era dedicato, sin dall’esergo, L’invitata, il libro-scandalo che ebbe uno straordinario successo editoriale consacrando la Beauvoir scrittrice.
“L’invitata” di Simone de Beauvoir: la trama di un libro-scandalo
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Simone de Beauvoir descrive la genesi del suo primo romanzo nel secondo volume della sua autobiografia L’età forte (1960) (titolo originale La Force de l’âge, Ndr), commentandone anche l’accoglienza critica e i punti di forza e di debolezza.
Narra il proprio proposito di trasformare la propria autobiografia in una storia di finzione e si sofferma, in particolare, sullo spazio in cui intende collocare la vicenda narrata: la cittadina normanna di Rouen e, infine, Parigi. Al principio del romanzo Parigi rappresenta la speranza, la realtà sognata. Nel finale del libro tuttavia emerge l’atmosfera claustrofobica e inquietante di Parigi durante l’occupazione: la capitale francese, la Ville Lumière, è deserta e spenta dalla guerra, le persone si nascondono nelle case o fuggono in provincia, oppure combattono sul fronte. Beauvoir, forse senza saperlo, ci restituisce un’ultima immagine della realtà della capitale culturale e artistica francese alle soglie della Seconda guerra mondiale.
Ma il fulcro della storia è un altro. L’invitata narra il groviglio affettivo che coinvolge una coppia intellettuale - composta da Pierre Labrousse e Françoise - e la giovane Xavière, aspirante attrice.
Quando ha inizio la narrazione Pierre e Françoise sono sposati, si conoscono da oltre dieci anni, ma non vivono insieme. Lui è un regista di teatro, lei sta cercando di lavorare al suo primo romanzo. La loro relazione viene subito descritta con tratti singolari, come un patto irrevocabile:
Non si può parlare di fedeltà o infedeltà tra noi.
Una frase che sembra fare eco alle prime pagine de La forza delle cose:
Tra noi è un amore necessario: è opportuno che viviamo anche amori contingenti.
Beauvoir in queste pagine indaga - con un’impronta già fortemente filosofica - la coscienza che si forma necessariamente nell’incontro con l’altro. Ne risulta un romanzo di “relazioni pericolose” che analizza, in maniera già estremamente moderna, la fragile dinamica della coppia che in queste pagine si apre a un dramma metafisico. Beauvoir, con straordinario anticipo sui tempi, svincola uomini e donne dai rigidi ruoli prestabiliti dalla società, spalanca l’orizzonte della coppia a una ricerca di senso che contempla altri modelli di relazione, decostruisce l’illusione dell’idillio amoroso. In tutto questo risiede la straordinaria contemporaneità del primo romanzo di Simone de Beauvoir, che continua a essere in dialogo con la nostra epoca.
La struttura stessa de L’invitata era singolare e originale nella sua costruzione: l’autrice decide di affidare la narrazione, di capitolo in capitolo, a un personaggio diverso rappresentando di fatto il prisma della coscienza che ogni volta rinfrange la luce da una diversa prospettiva. A dominare è comunque il punto di vista di Françoise, nella quale si coglie una forte eco autobiografica.
Gli echi autobiografici ne “L’invitata” di Simone de Beauvoir
Non è difficile riconoscere nel personaggio di Françoise l’alter ego di Simone de Beauvoir e scorgere nel personaggio di Pierre il riflesso di Jean-Paul Sartre, il loro amore fuori dal tempo è interamente trasposto tra le pagine nelle sue complesse e inquiete dinamiche. Invece Xavière, l’invitata, è la trasposizione letteraria di Olga Kosakiewicz, la giovane franco-russa che fu studentessa di Beauvoir nel 1933. Era lei al centro del triangolo amoroso che costituisce il filo conduttore - ma non il fulcro - de L’invitata. Il vero tema centrale del romanzo è, in realtà, la conoscenza dell’Altro, ciò che nei rapporti umani costantemente ci sfugge, la concezione filosofica della dimensione intima della coscienza che si scompone e frammenta nell’interazione con il mondo. Alla base di ogni relazione umana c’è la coscienza - questo alla base della scrittura filosofica di Beauvoir - e in ogni coscienza individuale risiede una pulsione egoistica, narcisistica, da qui l’impossibilità di possedere completamente l’Altro. Si originano quindi rancori, gelosie, malumori, equivoci comunicativi.
Xavière è l’inconsapevole vittima dell’intera vicenda, che ha una conclusione tragica e non prevede alcuna soluzione morale. Beauvoir in seguito confessò che il primo titolo proposto per il romanzo era “Legittima difesa”; ma decise poi di focalizzarsi sulla sua protagonista, su colei che aveva originato la scrittura, la “bambina” che intendeva salvare, ma che di fatto annienta. L’invitata è un titolo che restituisce tutta l’ambiguità della relazione che si instaura: per tutto il tempo Xavière è un’ospite, non viene mai integrata del tutto nelle dinamiche della coppia.
Le sfumature della relazione vengono sempre spiegate in chiave intellettuale, ma non viene mai sciolto il dubbio: chi è veramente Xavière? Françoise pronuncia spesso in riferimento a lei la parola “amore”, ma è un amore casto che si declina in attenzioni, premure, fatto di puro sentimento. Tanto che, a un certo punto, Françoise dice a Xavière:
Vorrei tanto che tu fossi felice della tua esistenza.
Ma questo sentimento in apparenza puro è in realtà torbido, nel finale tutto si confonde e assume diversi contorni. Beauvoir riesce a mostrarci magistralmente tutte le sfumature - persino quelle più oscure - della parola “amore”.
Nella vita vera, dunque fuori dalla finzione romanzesca, Olga Kosakiewicz si sottrasse alla dinamica infernale del trio e fuggì con un allievo di Sartre. Nelle pagine controverse de L’invitata tuttavia Simone non voleva conservare Olga, la vera Olga, ma come dichiarò in un appunto annotato sui suoi diari:
Il mito che noi avevamo creato attorno a lei.
I critici tuttavia non tardano a riconoscere nella figura di Xavière anche un pallido riflesso di Zaza (ovvero Elisabeth Lacoin), l’amica di Beauvoir precocemente scomparsa che occupa un ruolo centrale nel primo libro della sua autobiografia Memorie di una ragazza perbene e appare anche nel postumo Le inseparabili. Lei, Zaza, era stata la prima inconsapevole vittima, colei cui Simone cercò di dare nuova vita; il senso di colpa per la sua morte alimentava, come una linfa sotterranea, la sua scrittura. Negli incontri con Zaza e il fidanzato di lei, il filosofo Maurice Merleau-Ponty, Simone sperimentò per la prima volta quel sentimento inconfessabile che sarebbe stato alla base del suo romanzo, in quegli incontri si sente lei stessa L’invitata, come scrive:
Lei non era più il mio tutto.
Questo primo romanzo di Simone de Beauvoir conteneva già, in nuce, l’origine della sua filosofia.
Il finale è inatteso e folgorante, molto criticato suo tempo proprio per l’assenza di morale con cui l’autrice intendeva restituire tutta l’ambiguità del reale.
In quelle ultime parole pronunciate da Françoise troviamo una sorta di manifesto del pensiero di Beauvoir:
Sono io che lo voglio. Era la sua volontà che si compiva, nulla la separava più da se stessa. Aveva finalmente scelto. Aveva scelto se stessa.
“Sono io che voglio”, è già a ben vedere l’origine de Il secondo sesso (1949), in quelle righe batteva il cuore pulsante di una scrittrice che aveva ancora molto da dire e si preparava a concepire un “libro proibito” che avrebbe scritto la storia del femminismo moderno. Forse dovremmo leggere quel primo romanzo di Beauvoir, L’invitata (1943), in questa chiave, ovvero come un inno prodigioso alla libertà della coscienza che narra anche della sua responsabilità involontaria.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “L’invitata” di Simone de Beauvoir: la storia di un libro-scandalo
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