

La nostra collaboratrice Antonietta ha intervistato lo scrittore esordiente Fabio M. Rocchi, in libreria con La disputa sul raki e altre storie di vendetta , edito da Besa.
- Incuriosisce la scelta del raki. Sicuramente è un emblema dell’Albania, ma è solo per questo o ci sono altre ragioni?


Il titolo gioca in parte su un depistaggio. Il raki è posto al centro in quanto elemento noto e di richiamo, ma il vero fil rouge che tiene insieme queste dieci storie è in realtà la vendetta, un sentimento che da queste parti è stato per secoli radicato nel dna identitario della popolazione e che ha avuto connotazioni molto forti, tanto da essere normate nell’antico testo del Kanun. Il raki è centrale soltanto in uno dei racconti, ma mi piaceva molto utilizzarlo come simbolo. Documentandomi ho scoperto con sorpresa che in questa bevanda si condensano millenarie tradizioni di distillazione che accomunano molte aree del mediterraneo: la Grecia, la Turchia, i Balcani orientali. I personaggi che ho messo in scena coesistono e si sparpagliano in giro per l’Europa, seguendo le varie direttrici diasporiche che hanno caratterizzato, a partire dalle motivazioni più disparate, l’inizio di questo nuovo millennio. E però, nello stesso tempo, essi portano sempre con sé qualche tratto distintivo che proviene dalle proprie culture e che li accomuna in maniera sorprendente gli uni con gli altri, anche a distanza di migliaia di chilometri. In questo aspetto sta (anche) la portata simbolica di una bevanda trasversale come il raki, che a quel punto si presta a una pluralità di letture.
- Hai scritto La Disputa con un obiettivo ben preciso?
Con questo libro ho voluto rappresentare una coralità di voci che raccontassero la loro appartenenza a una fase storica ben precisa, ancora in corso per altro. I personaggi che ho inventato, grazie al tramite di vicende esemplari, attraversano un periodo di transizione. Si tratta di una transizione sociologica oltre che economica e politica. L’Albania di inizio millennio, che io ho conosciuto per la prima volta nel 2014 e che – sembra incredibile dirlo solo dopo 7 anni – è molto differente da quella odierna, è stata un punto di osservazione veramente stimolante: dal tramonto dell’ideologia comunista del regime di Enver Hoxha al post-capitalismo selvaggio e immateriale, tutto condensato in meno di 15 anni. Dalla mia prospettiva di occidentale trapiantato, si trattava davvero di un contesto perfetto per ambientare storie che si sforzassero di cogliere la coesistenza di un vecchio e di un nuovo mondo.
- Non sei mai giudicante nella tua narrazione. Come fai?
Se c’è una cosa che non perdono a una storia è quella di lavorare sull’ideologia dell’eroe. Il prendere apertamente posizione, tirando una linea di demarcazione subito riconoscibile che separa i personaggi buoni da quelli cattivi, è dal mio punto di vista un disvalore. Narrativamente parlando, palesa un atteggiamento involuto, nel romanzo e nel cinema, così come nella serialità televisiva. Coltivare il gusto per la sfumatura è probabilmente la maniera migliore per restituire un’immagine fedele della vita. Quante volte commettiamo azioni contrastanti? Pesiamo sulla bilancia della nostra coscienza le ragioni e i torti, cercando di mantenere un equilibrio tra istinto e raziocinio, spesso senza riuscirvi. Perché non dovrebbe farlo un personaggio? L’atto del giudizio lo lascio alla coscienza e alla sensibilità del lettore, mentre credo che il compito di un narratore sia quello di montare i fatti, di inventare cioè un plot il più possibile credibile, e allo stesso tempo contraddittorio e ricco di punti aperti. Anche sul versante stilistico, la scelta di una scrittura mai calma e mai riposata sulla bella parola, sulle tonalità consolatorie da libro “ben scritto”, corrispondono a questo ideale. Alcune scene rievocano il pulp – l’omicidio commesso da Aferdita nei confronti della suocera, Danush che cerca di fare giustizia tornando su un passato poco chiaro – e pongono il lettore di fronte a una immedesimazione onestamente difficile da compiere: quello che fino a poche righe prima appariva come il personaggio protagonista, quello con il quale si era portati a solidarizzare, a un certo punto regredisce a una dimensione tribale. Lo testimonia l’interdetto anche sociale (la sanzione del carcere) che arrivati a quel punto blocca la sua esistenza: ma è davvero “giusto” che le cose siano andate così? Ecco, non mi interessa alcun giudizio di valore. Intendo fermarmi poco prima di quella risposta, anche nei racconti privi di violenza, in cui cioè la vendetta si attua in forme meno corporali e al contrario più raffinate. Quello che mi interessa è la distruzione del concetto di un eroe buono o di un personaggio animato da un’unica coerente coazione a ripetere. Per quello ci sono le soap e le fiction istituzionali, oltre che i cattivi romanzi. In questo senso, credo che la serialità televisiva americana del primo decennio degli Anni Zero ci abbia consegnato esempi di ambiguità davvero giganteschi e innovativi: Tony Soprano, Donald Draper alias Richard Whitman e Walter White sono per me dei veri e propri modelli, personaggi totalmente contraddittori e per questo degni di essere trasportati con i loro meccanismi primari anche nell’universo della narrativa scritta.
- Quando si leggono i racconti, si ha la sensazione che tu abbia voluto lasciare aperta una porta al lettore, affinché potesse dare una propria e personale interpretazione alla narrazione. Sbaglio?
Non sbagli, anzi, cogli una costante che secondo me rimarrà piuttosto nascosta e che invece dal mio punto di vista è fondamentale, specie se la si seleziona all’interno degli equilibri costitutivi della raccolta. Qual è la vera colpa di Aferdita? Cosa turba Danush, fino al punto di fargli commettere un delitto efferato, oltre che piuttosto fantasioso nella dinamica? Enri è una sorella paziente e amorevole, ma è andata in Germania per crescere e trovare un lavoro all’altezza delle sue capacità o ha abbandonato l’Albania perché macchiatasi di una colpa che la famiglia non avrebbe potuto perdonare? Il paternalismo del protagonista della Diga è sproporzionato rispetto all’effettivo ruolo sociale rappresentato da un ingegnere italiano che opera in una terra per certi aspetti ancora da colonizzare sotto il profilo industriale? I soldi del padre agonizzante sono davvero nascosti da qualche parte? Taulant ha storicamente ragione o ha torto, quando vuole rievocare i presupposti della reazione civile al sistema, la vera leva ideologica dei disordini del ’91 secondo la sua ricostruzione? E Adana Kodra, il personaggio al quale sono sotto ogni profilo maggiormente affezionato, esagera quando ricostruisce la propria esperienza di imprenditrice della new economy, oppure è davvero un perfetto esempio di intellettuale cresciuta grazie ai nuovi media di inizio millennio? Sono tutte questioni aperte e ti garantisco che non saprei chiuderle in maniera perentoria. Ovviamente ho le mie idee, ma intendo dire che nemmeno io ho una risposta certa che riesca a sintetizzare in un’unica versione quelle particolari situazioni narrative. La mia opinione vale a quel punto come quella di un singolo lettore. Ed è credo un bene che sia così. Significa che i personaggi, inseriti in un contesto di senso che ho volutamente creato giocando su alcune ambiguità di fondo, dopo qualche pagina risultano in grado di vivere una vita propria, non appiattiti su quella situazione “di valore” di cui parlavo rispondendo alla domanda precedente.
- Chi è Fabio M. Rocchi?
Con La disputa mi sono volontariamente imposto di stare alla larga dalle scritture dell’io. Dunque, chi volesse cercarmi in questi racconti non mi troverebbe, né troverebbe la mia storia. Fabio Emme Rocchi, con la emme puntata, intanto, è una sorta refrain eufonico che devo al magistero editoriale di Giuseppe Girimonti Greco, un amico e una guida che da due anni mi dà consigli e trova per me, che vivo un po’ ai margini della cultura che conta, spazi e opportunità di espressione. Gliene sono molto grato, così come probabilmente funziona la sua idea di trasformare l’iniziale del mio secondo nome, Massimo, in un qualcosa di più accattivante. Al di là di questa precisazione, non ho ancora pensato a una formula efficace e condensata per definirmi. Dopo aver imboccato mio malgrado una strada che non era la più adatta ad assecondare le mie inclinazioni, quella dell’imprenditore, mi ritrovo ancora piuttosto indietro rispetto a molti traguardi. A 45 anni non va bene, ma ci sto lavorando.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista allo scrittore Fabio M. Rocchi, in libreria con “La disputa sul raki e altre storie di vendetta”
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