Abbiamo intervistato Pasquale Allegro, in libreria e nel catalogo dell’editore Arkadia con il suo Se ritieni che sia giusto (2025), il monologo straziante e a volte inesorabilmente divertente tra un figlio, Marco, e il padre Alberto, che è appena entrato nei corpi uccisi dall’acqua lasciandogli una casa a soqquadro e molti ricordi da gestire.
L’intervista a Pasquale Allegro
- Di solito la copertina e il titolo sono appannaggio dell’editore. Ha contribuito per la foto? E il titolo?
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La foto per la copertina mi è stata sottoposta dall’editore; il nostro è stato un confronto, e per la bellezza e l’originalità della proposta ho accettato senza rifletterci tanto. È una foto di Chiara G. Leone, un’artista di cui condivido la visione e lo sguardo sulle cose; qui in particolare è come se la bellezza del mondo, che si coglie dietro i veli, terminasse tutta lì, in totale resa proprio al centro di quelle dita strette. Ho sentito che c’erano, tra me e la fotografia, tra me è l’artista, tante persone e tanti passati che servivano a ricordare, con giorni di profondità diversi, con angoli dal taglio diverso. L’ombra che quei veli disegnano sul volto ha offerto un riparo alla storia narrata, la vita così intesa nel racconto appartiene per magia alla prospettiva offerta dall’immagine: forse i ricordi si nascondono e chissà come verranno restituiti. Insomma, la prima volta che ho visto la copertina ho colto la bellezza per anticipazione.
Se ritieni che sia giusto è un titolo che è venuto fuori dal testo e l’ho trovato emblematico del percorso narrativo: ad un certo punto il protagonista si trova ad affrontare il terreno incandescente del perdono, camminandovi piano sopra per non disturbare i morti, e quando si ha a che fare con il perdono e la possibilità di riconoscere alle esistenze dei momenti di redenzione, si comprende che in quelle pieghe s’annida l’orgoglio e l’incapacità di riconoscere il tarlo relativo del concetto di giusto. C’è un principio di ciò che è giusto a governare il mondo? si continua a ripetere il protagonista, senza rendersi conto che relativamente al rapporto con il padre quel principio gli divora il cuore e lo sguardo, rendendoli secchi e svuotati.
- Chi è il personaggio che scrive questa storia? È sempre lei ma con imprevisti che ci ricordano che l’autofiction è finzione quasi sempre, o non è d’accordo?
Si tratta di un romanzo, di un’opera di fiction, dunque neanche autofiction, questo ibrido tra autobiografia e finzione, è pura finzione, la magia della scrittura sta proprio qui. Certo ci sono dei passaggi personali, magari episodi che sono capitati a persone di mia conoscenza e che io ho trasposto a mio piacimento, o a mio disfacimento, così come non c’è nulla di “fantastico”; insomma la storia non mi appartiene come biografia ma appartiene alla biografia realistica del mondo che ho attorno, non è la mia verità ma è la mia nozione di verosimiglianza. Per dire: sullo sfondo, il paesino sul mare esiste, lì ho vissuto davvero tanti ricordi. E poi c’è un aspetto importante della scrittura, quello che ti offre la possibilità di trovare rifugio e riparo, di esorcizzare le paure: non necessariamente narro l’abbandono perché sono stato abbandonato, ma probabilmente quella dell’abbandono mi appartiene come paura; o ancora, riguardo i desideri, io posso raccontare quello che non vorrei o vorrei mi accadesse.
La tendenza all’autofiction è sempre in agguato, dici? Certo, brilla come una fiammella piccola ma non è debole, per nulla votata a spegnersi. È solo una specie di felicità più fragile, una felicità di esserci per raccontarlo, e per fare narrativa è di questo che non possiamo fare a meno: di ciò che non esiste e che inventiamo, ogniqualvolta, per farci ricordare. Creature che ci abitano, e che in realtà non esistono, ci rendono reali. Abbiamo bisogno di inventare in letteratura cosa ci fa stare su questo mondo a partire da quello che abbiamo vissuto. E abbiamo vissuto quello che abbiamo immaginato. E di magia in magia non finirei più di delineare questo viaggio ossimorico tra finzione e non finzione in letteratura.
- Da altri libri recenti italiani, le famiglie, i figli, i genitori sono un disastro. Forse l’ha saputo mettere sul computer, la sua famiglia originale.
È chiaro che si torna dove si è stati felici. La famiglia è il luogo spesso deputato a questo ritorno e mi colpisce il fatto che possa valere anche per quelle considerate infelici; c’è sempre anche lì un angolo di nostalgia che le rende mete di ritorno. Spesso è la fragilità di una famiglia che la rende eterna. La cura dei ritratti sospesi sulle mensole prescinde dalla qualità dei rapporti, anche se quello che ne è venuto fuori di quegli anni sono stati abbozzi di ciò che si è o schizzi di ciò che rappresenta per te una famiglia serena. È che quando varchi la soglia del ricordo vuoi darti i migliori momenti di sempre, e scrivendo vuoi darti le migliori parole di sempre. La famiglia rimane da qualche parte come una liturgia, un’orazione in cui diluire le condanne e i dolori.
- Anche Sara avrebbe potuto scrivere questo monologo, o il Narratore. Voleva il libro tutto per sé?
Assumere il punto di vista dei vari personaggi di volta in volta? È affascinante, tanti scrittori lo fanno, è sicuramente impegnativo racchiudere nelle pagine l’essenza di tutti i motivi narrativi. Ma credo non mi appartenga la disposizione corale, inseguo sempre una voce sola, che certo non contenga una parte di me unica, perché nonostante io rinunci all’autofiction con la narrativa di finzione ciò non significa che io come autore riesca a scomparire del tutto. Non sono mai stato capace di restare da solo in questo senso, ho bisogno di comprensione, ho bisogno di spalle, dell’autore con una sua vita. Questo mi porta ad assumere il punto di vista di un solo personaggio, sempre pronto a indossare la mia solitudine. E ogni volta c’è qualcosa di strano nella voce del mio unico personaggio: una crepa, forse, in cui riconoscere le mie parole dal di dentro, comprendere quello che non viene detto. Questa crepa non riuscirei a moltiplicarla per tanti personaggi, ne scelgo uno e diventa l’unico luogo del mondo in cui mi nascondo, non pronunciando parole intere, usando quasi parole, e rifuggendo il silenzio, che è l’unico momento che fa davvero male.
- Come sono gli adolescenti italiani? Può fare un paragone, se ha vissuto almeno sei mesi in un altro paese?
Non ho mai avuto la possibilità di vivere così a lungo all’estero. Ma conosco bene gli adolescenti italiani perché ho a che fare con loro quotidianamente, a casa come padre e a scuola come insegnante.
Mai come in questo periodo si ritrovano immersi, come travolti, in questo fiume progressivamente folle, a rincorrere una libertà, per diversi motivi giusta, e alcuni finiscono così per perdere l’orientamento. Affrancarsi da qualcosa significa sempre costringersi dentro i confini di qualcos’altro. Io sto lì a spiegargli senza sosta che non è necessario vincere per stare bene, che le conquiste importanti non sono necessariamente frutto di competizione; miei cari – dico loro – siamo fragili creature che per poter esprimersi hanno bisogno di spazi colmi di silenzio, e io vi sento eccome. Si sentono risorse da corrispondere alle aspettative, alla ricerca di un’omologazione, perché non concepiscono la possibilità di un’unione improbabile di frammenti tra loro diversi, non credono possa funzionare. Nel momento in cui si donano al flusso indistinto di informazioni provano inevitabilmente la frustrazione di lasciarsi sfuggire tante cose, si sentono strappati, come “scarabocchiati”; li invito a considerare solo tutto ciò che riesce a stare nelle loro mani: molte cose gli sfuggiranno, ma molte altre, quelle che afferreranno con presa sicura, gli apparterranno profondamente.
- La sua scrittura è bellissima. Talento innato? Ha frequentato Baricco con la scuola Holden?
Ti ringrazio, fa immenso piacere sentirselo dire, sono lusingato. Non ho frequentato scuole di scrittura, lentamente l’impegno sulla forma ha assorbito la mia voce e la mia sensibilità, un lavoro che con modestia e dedizione porto avanti senza provocare grandi stupori.
Mi sono reso conto che la prima attitudine della scrittura è la bellezza e che si tratta di una bellezza segnata da un lirismo appena accennato. La mia è una prosa poetica? Qualcuno la definisce così, e in effetti io vengo dalla poesia, le mie prime rappresentazioni sono poetiche, poi ho sentito l’esigenza della narrativa. La narrativa rispetto alla poesia ha delle regole più chiare, ha già una trama, o per dirla peggio risponde a una “dittatura della storia”. La narrazione insomma mi fa rientrare nei ranghi. Proprio per la libertà che offre, sento nella poesia una certa incompiutezza nel cammino, nella gratuità del suo parlare. E in quell’altro orizzonte, invece, quello della prosa intendo, cerco di costringere quella poetica, la metto ai margini, per un una missione più grande e importante, si spera.
- Come sta vivendo questo periodo attuale?
Mi sento sospeso tra un lato e l’altro davanti a qualsiasi evento di quest’epoca. E questo crea in me uno sbandamento serio, poche cose mi ritrovo in termini espliciti, non ho questa fortuna che riconosco in molti, questo tipo di chiarezza mi respinge. Tuttavia è probabile che questo senso di accerchiamento sia più stimolante di quanto non sia, invece, avere le idee chiare su tante cose. Da credente sento anche la difficoltà di vivere un trasporto spirituale in ambienti indifferenti, nel momento in cui pare possa trovare un interlocutore sento forze contrastanti che spingono affinché quel trasporto si ripieghi dentro di me. Così si perde lucidità. Sento comunque il vantaggio di poter resistere alle ideologie, la fede in questo mi aiuta, la fede non va confusa infatti con una specie di investimento trapuntato di princìpi ma è uno sguardo, un orizzonte, è una realtà di grandi emozioni.
- È credente?
Credo in Dio, sono cattolico fin da bambino, anche se poi l’incontro speciale è avvenuto in un periodo della tarda adolescenza, quando a un certo punto mi sono sentito prendere per mano, una luce si è posata ovunque, il figliol prodigo che si era andato perdendo per il mondo è tornato a casa. Il paradosso sta nel fatto che quel che era avvenuto da sempre avvenne in quell’istante per la prima volta.
- Che si aspetta con la sua bella scrittura?
Con la mia scrittura mi aspetto di diventare profondamente e intimamente libero di esprimere la mia voce, non di dire “quello” che voglio, ma di dirlo “come” voglio, una voce riconoscibile e riconosciuta, non in termini di popolarità ma di dignità. Un legame con la vocazione della scrittura che va oltre l’affermazione.
- È pigro?
Se sono pigro? Più che altro mi piacerebbe esercitare la pigrizia, con tutta la sua collezione di esplorazioni, di uscite da tenere a bada. La pigrizia richiede una profonda dedizione.
- Come si vede tra venti anni?
Ho il timore di immaginarmi tra vent’anni, certi giorni mi fa male il futuro, immagino cose che non dovrei, momenti in cui mi consegno alla paura, a vedere il dolore da vicino. Preferisco pensarmi come la parte di mezzo di questo filo lungo, seguendo il sogno quasi impercettibile dei giorni.
Recensione del libro
Se ritieni che sia giusto
di Pasquale Allegro
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Pasquale Allegro, autore di “Se ritieni che sia giusto”
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