Qui c’è tutto il mondo è una graphic novel edita lo scorso fine settembre per Tunuè e firmata Cristiana Alicata e Filippo Paris.
Il libro, ambientato nella provincia di Bergamo durante un gelido inverno di metà anni ’80, racconta una storia di formazione e amicizia schierata contro gli stereotipi di genere, animata da un ammirevole realismo linguistico e da un impianto grafico delicato e di impatto.
Qui c’è tutto il mondo
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- Per entrambi Qui c’è tutto il mondo rappresenta un esordio nel mondo dei graphic novel: quali sono state le sfide di questa collaborazione a quattro mani e i momenti che vi hanno più divertito?
Filippo: Per circa una decina di anni ho cercato di avvicinarmi a questo mondo, ma venivo continuamente respinto, forse non era il momento giusto... Qui c’è tutto il mondo ha rappresentato l’occasione, quindi ero predisposto ad affrontare e superare qualsiasi difficoltà che si sarebbe presentata durante i due anni successivi che ci sono voluti per realizzarlo. Ci sono state difficoltà di ogni tipo, nella sfera privata, ma anche di collaborazione iniziale tra me e Cristiana. Mano mano ci siamo conosciuti e capiti meglio.
Momenti divertenti? Due in particolar modo: il primo, quando le ho mostrato le prime sedici tavole definitive e le sono piaciute; il secondo, una splendida cena in terrazzo in cui Cristiana ha cucinato un eccellente spaghetto alle telline.
Cristiana: La sfida era rendere visibile la mia scrittura, trasformarla da parole che lasciavano spazio all’immaginazione del lettore a parole che scolpissero immagini. C’è voluto del tempo, non è stata una cosa semplice per me. Sono due modi di scrivere completamente diversi. La parte più divertente era vedere realizzato ciò che scrivevo con una sintonia speciale e spessissimo vedere che avevo lasciato ancora qualche grado di libertà che Filippo riempiva magistralmente.
- In che modo le vostre competenze in altri settori vi sono state utili nel processo di creazione e in cosa, invece, avete dovuto ripensarvi da zero?
Filippo: Sono laureato in Architettura e scenografia, ho attinto tanto dalle competenze pregresse, soprattutto dalla scenografia. Nel libro mi sono concentrato molto sullo scenario, il paesaggio è fisico ma anche interiore/astratto, gli interni sono vari e diversi. Disegno da sempre e non potrei privarmene, in un certo senso lo considero anche terapeutico. Una difficoltà iniziale l’ho trovata proprio nel dover disegnare bambini: ho sempre avuto una certa predilezione nel disegnare la figura umana, ma adulta. Quindi per trovare Anita, Tina ed Elena ci sono stati tanti studi, tanti passaggi.
Cristiana: Per me è stato un totale ripensamento. Per lavoro faccio tutt’altro, anche se alla fine nel fare la manager in questo millennio non puoi non esercitare l’immaginazione e il fortissimo senso di tenere insieme le persone e farle stare bene. I luoghi di lavoro non sono più luoghi di produzione, non solo almeno; sono luoghi di interazione interdisciplinare, di condivisione. Io e Filippo eravamo come due colleghi che si incontrano sul posto di lavoro, senza nessun passato comune e che in qualche modo devono coordinarsi e lavorare in armonia e stare bene. Mi pare che ci siamo riusciti.
- Mentre scrivevate e illustravate il volume avevate in mente un lettore ideale o reale che, a vostro avviso, si sarebbe appassionato più di altri alla storia?
Filippo: Stare tanto tempo davanti a una storia ti espone al rischio di non riuscire più a essere obiettivo - io non ce l’ho fatta ad aspettare la fine del volume per capire se una sequenza funzionava oppure no. Ho dei cari amici appassionati di fumetti ai quali spesso ho chiesto di esprimersi al riguardo. Poi, però, mi è capitato di immaginare la reazione della mia famiglia o quella dei miei studenti alla lettura del mio primo libro.
Cristiana: Non penso mai al lettore quando scrivo. Non so se è un bene o un male e non significa che non voglia essere letta. Ma faccio un esercizio di autenticità maniacale, non cedo nulla alle mode. È uno dei motivi per cui mi trovo molto più a mio agio (con le dovute eccezioni) con scrittori di altri tempi o stranieri.
- Qui c’è tutto il mondo è una storia “vecchia” di 35 anni, eppure una bambina dell’età di Anita, Tina o Elena potrebbe oggi ritrovarsi nella loro esperienza senza grosse difficoltà. Secondo voi è un buon segno?
Filippo: Nell’arco di questi 35 anni sono cambiate tante cose. I bambini di oggi sono definiti nativi digitali e molto probabilmente oggi a calcio si gioca di più virtualmente, restando ognuno nella propria casa piuttosto che correndo su campi impolverati. Però credo che le dinamiche legate alle emozioni e ai primi batticuori siano universali.
Cristiana: Non so, sai, se questo potrebbe accadere. Noi siamo stati gli ultimi bambini irreperibili, quelli che oltre la soglia di casa erano non tracciabili. In più adesso ci sono tantissime risposte sulle loro domande, anche contradditorie. Ai miei tempi se volevi giocare a calcio eri una singolarità, non avevi la capitana Sara Gama da sbandierare come esempio. Non esisteva nulla per strada se non te stessa: diventavi il tuo personale parametro, senza influenze, ma anche senza aiuti.
- Spesso l’infanzia e la prima adolescenza sono considerate fasi spensierate e semplici, a cui guardare a posteriori con nostalgia. Cosa ne penserebbero le protagoniste di Qui c’è tutto il mondo?
Filippo: Per me gli anni della preadolescenza non sono stati così spensierati. Nel corso di questo lavoro mi sono affezionato molto ad Anita, Tina ed Elena, mi hanno fatto compagnia per due anni. Forse Cristiana è più adatta a rispondere a questa domanda.
Cristiana: Da adulte lo penserebbero senza ombra di dubbio. Da bambini si vive tutto in modo gigante, i ricordi diventano la propria mitologia. Le parole non scivolano, si scolpiscono. I bambini sono argilla e quello che gli accade è di scolpirsi crescendo. Quando sei grande è complicato che qualcuno riesca a “cambiarti”. Quando sei piccolo è facile che un evento cambi il corso del tuo modo di essere.
- L’opera è caratterizzata da uno straordinario realismo sul piano geografico e linguistico. Quanto e cosa avete pescato dal vostro background in questa ricostruzione?
Filippo: Al materiale di ricerca raccolto all’inizio è stato aggiunto il mio trascorso (e quello di Cristiana attraverso la sceneggiatura), il vissuto, la memoria. Il vigneto, la campagna, i fossi, il doghettato della scuola elementare, le corse in bici e quelle per evitare le botte della mamma. E poi tutto quello che ha caratterizzato gli anni Ottanta. Dai fatti di cronaca, ai cartoni provenienti dal Giappone. Qui c’è tutto il mondo è un concentrato di ricerca, memoria, citazioni e sentimento.
Cristiana: Direi tutto. Ho abitato Stezzano, ricordo la nebbia sui fossi lungo la strada, gli sconfinati campi di mais, le pannocchie, passeggiarci in mezzo, perdersi, non trovare più riferimenti.
- Quali sono stati i vantaggi e quali le difficoltà di adottare il punto di vista di Anita bambina per dare voce alla sua esperienza?
Filippo: Si tratta di un punto di vista esclusivo che ho apprezzato molto nella sceneggiatura. Siamo sempre presi dalle nostre cose (lavoro, vita frenetica, scadenze e tensioni) e spesso non teniamo conto di come un gesto o una parola possano gravemente segnare la sensibilità di un bambino.
Cristiana: La voce narrante di Anita ha aiutato, credo, una narrazione piena di immagini anche “deformate” dalla fantasia. Pensa a come abbiamo raccontato la malattia della mamma di Anita incarnandola nella medusa (qui ci è venuto in aiuto anche Caravaggio).
- Con quali opere dagli intenti affini, anche se diverse nella forma, a vostro avviso ha instaurato un dialogo questa graphic novel?
Filippo: Due sere fa sono stato al cinema, ho visto Padrenostro di Claudio Noce. Durante la visione ho sentito crescere una forte emozione. Ho trovato tanti punti di contatto con il nostro libro (uscendo dal cinema ho scritto subito a Cristiana, consigliandole il film), a partire proprio dalla scelta di raccontare la storia attraverso gli occhi di un bambino.
Cristiana: Sicuramente Ho dormito con te tutta la notte da cui è tratto. E tutta la letteratura con cui sono cresciuta, che poi era quella di mio padre bambino: Verne, Salgari, I ragazzi della via Pál. Pinocchio che scappa pure lui per trovare se stesso. E poi le bambine ribelli di Piccole donne e Pollyanna. E quella enorme onda di cartoni giapponesi con cui sono cresciuta violando le regole, ché per i nostri genitori erano diabolici, invece erano pieni di nostalgia e infanzie violate.
- Anche la vostra esperienza di autoaffermazione, quando avevate l’età delle protagoniste, è passata attraverso episodi così pregnanti da elaborare?
Filippo: No, io sono sempre stato un bambino “defilato”: mi bastava avere matite, penne e cartoncino della scatola delle scarpe (di cui adoravo la consistenza) per stare bene. Ero un bambino che assecondava e costruiva molto con la fantasia.
Cristiana: Beh, nell’infanzia di Anita c’è molto della mia infanzia. E sì, ho avuto un’infanzia molto movimentata.
- Qual è la cosa più preziosa che avete imparato da Qui c’è tutto il mondo e quella che, grazie a questa esperienza, avete invece capito di volere imparare al più presto?
Filippo: Qui c’è tutto il mondo rappresenta tante cose per me. L’occasione che aspettavo da tanto (ringrazio ancora Tunué e soprattutto Simona Binni, la curatrice della collana Ariel) ha rappresentato l’obiettivo da raggiungere nell’arco di questi due anni. È stato un salvagente, quando mi è capitato di sprofondare nel dolore. Ed è stato il mondo in cui ci siamo incontrati io e Cristiana. Nutro un profondo affetto per questo libro.
Cristiana: A me sarebbe piaciuto disegnare, ma ho incontrato Filippo e sono felice che lo faccia lui. Non è escluso che ci si rimetta al lavoro presto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Filippo Paris e Cristiana Alicata, in libreria con "Qui c’è tutto il mondo"
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