

Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce, edito nel 2025 per La nave di Teseo, è un libro doloroso, poetico e difficile da digerire, che ci mette in contatto coi ricordi per scrivere le assenze nell’esistenza dell’autore, a ricordarci che ognuno di noi ha il proprio cimitero personale. Abbiamo incontrato Giuseppe Cesaro per porgli alcune domande sulla sua opera.
L’intervista a Giuseppe Cesaro
- Il suo memoir si riconosce per una copertina molto colorata, con un bimbo triste che tiene una rosa. Come si è arrivata a questa scelta? Le do del lei per consuetudine.


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Il lei va bene. Usiamo il tu con troppa disinvoltura. Senza contare che il lei aiuta a fugare sospetti di un uso strumentale dell’amicizia. La copertina – un dettaglio di un bellissimo quadro di Antonio Donghi – è stata scelta da Elisabetta Sgarbi, fondatrice e Direttore editoriale de La nave di Teseo. Intuizione felicissima, che simboleggia perfettamente tema e clima di queste pagine. Mi sono riconosciuto subito nello sguardo pensoso di questo bambino, che tiene in mano un garofano, mentre, alle sue spalle, il viso della madre non si vede. Del resto, ricordare, dopo decenni, un volto che la vita ti ha strappato troppo presto è quasi impossibile.
- Nel suo libro ci sono anche citazioni da altri romanzi. Uno per tutti La cognizione del dolore di Gadda. È una domanda corretta? E poi cosa ne pensa della constatazione che in Occidente il vero tabù è la morte?
La domanda è corretta. E, personalmente, lo ritengo un fatto fondamentale. Se le domande sono sbagliate, infatti, le risposte, anche giuste, non servono a nulla. Se le domande sono giuste, invece, persino le risposte sbagliate possono essere portatrici di senso.
Quanto alla morte, è vero: in Occidente, quel tema è tabù. Un errore colossale. Non solo perché la morte è, forse, l’unica esperienza davvero universale. E tutti, dunque, siamo chiamati a fare i conti con lei. Ma, soprattutto, perché, per contrasto, la morte - insieme al dolore che porta con sé – ci aiuta a mettere a fuoco il valore del tempo e della vita. Un po’ come la notte con le stelle: senza quel fondo nero, oscuro, misterioso, impenetrabile e persino opprimente, noi non sapremmo nemmeno che le stelle esistono. E, quindi, oltre a perdere la magia, l’incanto, lo stupore che esse suscitano, non riusciremmo nemmeno a tracciare e a seguire la rotta mai facile dell’esistere.
- A proposito della morte, ci ha fatto già i conti. Una madre perduta quando era giovane e una sorella. Forse io ho involontariamente tolto il lato biografico, perché ho voluto pensare alla sua famiglia come disfunzionale.
Non credo che la mia famiglia sia stata disfunzionale. Era una famiglia che usciva dal momento più duro e doloroso del Novecento – la Seconda Guerra Mondiale – e che aveva visto la morte, prima di mia sorella e poi di mia madre, spezzare, brutalmente e irrimediabilmente, il tentativo di costruire un futuro diverso dal passato che i miei si erano appena lasciati alle spalle. Per quanto riguarda, in particolare, mia mamma, mi chiedo se sia mai riuscita a essere sé stessa e se sia stata, sia pur brevemente, felice. Mi piacerebbe sapere se - al di là di essere la moglie di Giacomo, la mamma di Giuseppe, Giovanni, Benedetta e, sia pure per pochissimo, Marta, la donna di casa che si è presa cura di tutti tranne che di sé stessa - abbia mai avuto la possibilità di essere la persona e la donna che sentiva di essere dentro di sé. Rimpiango di averla conosciuta pochissimo. Non solo perché è morta troppo presto ma anche perché, tra scuola, doposcuola, inglese e basket, rientravo a casa che era quasi ora di cena e non abbiamo mai avuto l’occasione di parlare delle cose che contano davvero. E questo, è forse il rimpianto più grande.
- Quando sono morti i miei genitori ho provato del risentimento ed ero pieno di rabbia. Perché siete andati via? mi chiedevo. Come ha vissuto lei l’inizio del lutto?
Le rispondo partendo dal titolo di un bellissimo saggio di Nadia Fusini, che recita “Di vita si muore”. La trovo una sintesi perfetta del rapporto tra vita e morte. Il dolore è una componente inevitabile ma anche essenziale nell’esistenza. Credo che – visto che ce n’è così tanto e tutti ne siamo toccati – il punto sia capire se abbia un senso o se riusciamo a dargliene uno. Personalmente credo, come ho cercato di spiegare con la metafora della notte e delle stelle, che il senso sia, soprattutto, nel ricordarci il valore del tempo. La notte serve anche a ricordarci il valore del giorno. E, dunque, del tempo. Più il tempo passa, meno ne resta e più giorni, ore e istanti diventano preziosi. C’era un grande pensatore dell’antichità che diceva: “non è vero che abbiamo poco tempo: è che ne sprechiamo tantissimo”. Ecco, se il dolore ha un senso credo sia quello di ricordarci che il tempo è preziosissimo e dobbiamo cercare di sprecarne il meno possibile.
Per quanto riguarda, invece, rabbia e rancore, confesso di averli provati e anche molto intensamente. Anche perché l’incontro con la morte è avvenuto fin troppo presto. Avevo nove anni quando è morta mia sorella e diciassette quando è morta mia madre. Ho cominciato a capire subito, quindi, che le persone che ami ti possono essere strappate all’improvviso, senza particolari riguardi e senza un motivo apparente. Quando sei bambino e adolescente fatichi a superare certe esperienze senza che la rabbia si impadronisca di te. La rabbia c’è stata ed è stata tanta e, ogni tanto, riaffiora in superficie ancora oggi, anche se l’età mi ha insegnato a cercare di fare qualcosa di tutto questo dolore, per me e, magari, anche per gli altri. Un grande poeta dell’antichità diceva: “questo dolore un giorno ti sarà utile”. Credo che la cosa più importante sia arrivare vivi a quel giorno, anche per capire che dolore, rabbia e risentimento possono anche essere risposte di una “vitalità” che non vuole rassegnarsi alla “mortalità” del tutto.
- Quando si parla di memoir, se è vera letteratura, si intuisce che c’è un preponderante livello di finzione. Se lei chiede un caffè e lo scrive su un foglio, noi che leggiamo la sua frase non sappiamo se è arrivato il caffè, e se è stato bevuto, se era buono, oppure si tratta dell’abusato "Je est un autre" di Rimbaud...
Ha ragione: nel momento stesso nel quale il pensiero diventa scrittura, inevitabilmente, si corrompe. La scrittura è meno reale del pensiero che l’ha suscitata. Anche quando, come in questo caso, la vicenda narrata è una vicenda vera, la narrazione è, inevitabilmente, “corruzione”. Per questo, ho cercato di essere il più onesto, aderente e asciutto possibile con me stesso, la mia memoria, i miei sentimenti, le mie emozioni. E credo che questo traspaia anche dalla forma che ho scelto: frammenti disposti in capitoli brevi, capitoletti brevissimi, frasi il più possibile punteggiate, con un’aggettivazione ridotta all’osso. Ho fatto di tutto per evitare che la mia scrittura potesse risultare viziata da autocompiacimento, commercio delle emozioni, lirismo e da ogni orpello narrativo o “trucco del mestiere” che la allontanasse dal nucleo, tutt’oggi incandescente, della mia vicenda personale: spero di esserci riuscito.
- Lei segue una religione, è cattolico? E poi una domanda ossessione che faccio spesso: ha un ricordo del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro? Infine le chiederei un pensiero sugli adolescenti di adesso.
Sono cresciuto in una famiglia che viveva una fede cristiana autentica e profonda e, oggi, mi considero un cristiano a-confessionale. Anche perché ho della fede un’idea svincolata dalla morale. Credo che la fede sia una cosa e la morale un’altra e che queste due cose non debbano essere confuse. E credo anche che, se un Dio esiste – come, personalmente mi auguro, senza, ovviamente, avere alcuna certezza in proposito – sia amore (“Deus caritas est” ha scritto vent’anni fa un “papa-teologo”) e non un contabile delle nefandezze, meschinità e mediocrità dell’animo umano. Di questo genere di contabili è già pieno il mondo…
Per quanto riguarda Moro, credo che quei 55 giorni siano stati, allo stesso tempo, l’evento più tragico e più devastante della storia repubblicana. Non un “colpo al cuore dello Stato”, come lo si definì all’epoca ma un vero e proprio colpo di Stato che ha, di fatto, segnato la fine della Repubblica così come l’avevano immaginata i Costituenti.
Per quanto riguarda i giovani di oggi, non credo affatto che siano una generazione perduta né la peggiore dal dopoguerra a oggi. È un luogo comune del tutto privo di fondamento. Ogni generazione è convinta di essere migliore della successiva. Non è così. Anche perché, se fosse davvero così, la Storia sarebbe un inarrestabile precipitare nell’abisso… Vedo solo due problemi di fronte ai quali temo che non siano sufficientemente preparati: lo strapotere dei social e l’avvento dell’Intelligenza Artificiale. Personalmente, credo si tratti di due realtà in grado di produrre vere e proprie mutazioni antropologiche, potenzialmente molto preoccupanti. Credo che bisognerebbe fare tutto il possibile per mettere la generazione giovane in condizione di usare social e IA come strumenti e non correre il rischio di diventare essa stessa strumento di social e IA.

Recensione del libro
Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce
di Giuseppe Cesaro
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Giuseppe Cesaro, autore di “Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce”
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