Ci sono incontri che nascono dalla curiosità e diventano dialogo. Così è stato con Alessandra Selmi, autrice de La prima regina (Nord, 2025), un romanzo che illumina la figura di Margherita di Savoia con grazia e profondità, restituendole voce e umanità.
Con l’autrice abbiamo parlato di scrittura e libertà, di come la storia possa diventare racconto vivo, di quanto dietro la compostezza dei ritratti e dei protocolli si nascondano emozioni, desideri e contraddizioni.
L’intervista ad Alessandra Selmi
- Da dove nasce l’idea di raccontare Margherita di Savoia, una figura così emblematica eppure poco indagata nella narrativa contemporanea?
Essendo di Monza, ho sempre avuto un legame profondo con la mia città e con i suoi luoghi. La Villa Reale, con il suo parco e le sue storie, è una presenza costante nella mia vita, quasi un personaggio silenzioso che accompagna le giornate di chi vive qui. Quando ho iniziato a pensare a un romanzo ambientato in quel mondo, raccontare Margherita di Savoia è stato inevitabile e, allo stesso tempo, bellissimo: la sua figura è indissolubilmente legata alla Villa e al periodo in cui Monza fu al centro della vita di corte. Mi affascinava restituirle voce e umanità, mostrarla non solo come regina, ma come donna che ha saputo reinventarsi dentro un destino già scritto.
- Qual è stata la prima immagine o la prima suggestione che l’ha spinta a scrivere questo romanzo?
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È stato il Parco di Monza, nelle sue profondità meno conosciute e frequentate. C’è un’atmosfera particolare, quasi sospesa, in quei luoghi dove la natura ha ripreso spazio tra le tracce della storia. Passeggiando lì ho immaginato le voci, le vite e i segreti che un tempo abitavano la Villa Reale: servitori, dame, regine, persone comuni travolte dai destini della Storia. Da quella suggestione, da quell’intimità tra luogo e memoria, è nata La prima regina.
- In che modo si è documentata: archivi, biografie, lettere, iconografia? C’è stata una fonte che l’ha colpita più di tutte?
La documentazione è stata lunga e appassionante: ho consultato saggi, biografie, diari, manuali dell’epoca, lettere e persino ricettari. Mi interessava restituire non solo la Storia ufficiale, ma soprattutto la vita quotidiana, i gesti, le parole e i sapori del tempo. Ho letto la corrispondenza di Margherita e Marco Minghetti, i diari di Carlo Dossi e di Henry d’Ideville, i giornali come “Il Gazzettino”, “La Folla”, “Margherita”. Giornale delle signore italiane. Persino i manuali di buone maniere e i testi scolastici citati nel romanzo sono autentici. Ma più di tutto mi hanno colpita le voci intime, quelle che non erano destinate alla Storia: nei diari e nelle lettere ho ritrovato la verità degli esseri umani dietro i personaggi pubblici, e forse proprio lì è nato il desiderio di raccontarli davvero.
- Nel libro Margherita appare divisa tra donna e regina: quale di queste due anime le è sembrato più difficile restituire sulla pagina?
La Margherita intima. Della sua sfera privata non è rimasto quasi nulla: ciò che conosciamo è sempre filtrato dal cerimoniale, pianificato, controllato. La regina pubblica ha archivi, discorsi, fotografie; la donna, invece, lascia soprattutto silenzi. Per raccontarla ho dovuto lavorare su margini e omissioni, incrociare le fonti e poi, dove le tracce finivano, assumermi il rischio dell’immaginazione: speculare con misura, immedesimarmi senza tradire il contesto storico. È stata la parte più delicata: dare voce a ciò che non è documentato, mantenendo credibilità e pudore.
- Il romanzo insiste molto sul tema dell’apparenza pubblica e della fragilità privata; quanto questa dialettica è universale e quanto specifica della regina Margherita?
È un tema universale, che riguarda tutti noi. Ognuno, in misura diversa, costruisce un’immagine pubblica e cerca di proteggerla, soprattutto oggi, nell’epoca dei social media, dove la rappresentazione di sé è diventata parte integrante della vita quotidiana. Nel caso di un personaggio come Margherita di Savoia, però, questa tensione assume una dimensione estrema: ogni suo gesto, ogni parola, persino il modo di vestirsi erano strumenti politici. La fragilità privata non poteva trovare spazio se non nel segreto. Raccontare quella frattura, quel continuo equilibrio tra immagine e identità, è stato uno dei motori più profondi del romanzo.
- Re Umberto emerge come figura “inadeguata”. È stata una scelta narrativa o una lettura storica che ha trovato conferma nelle fonti?
Entrambe. Umberto è spesso ricordato come “il Savoia che non voleva essere re”, e molte fonti restituiscono l’immagine di un sovrano esitante, poco incline alla funzione politica e al carico simbolico del ruolo. La mia scelta di ritrarlo come inadeguato ha dunque basi storiche. È anche vero che accanto a una presenza così “ingombrante” e carismatica come Margherita chiunque avrebbe rischiato di apparire in ombra.
Detto ciò, va riconosciuto un fatto decisivo del suo regno: nel 1889, con il Codice Zanardelli da lui promulgato, in Italia venne abolita la pena di morte (poi reintrodotta dal fascismo e infine abolita definitivamente nel secondo dopoguerra). Soprattutto, essere re significa portare sulle spalle responsabilità enormi: in un’epoca di grandi cambiamenti e contrasti – quella di Umberto – l’inadeguatezza non è solo un tratto individuale, ma una condizione quasi strutturale.
- Perché ha scelto di dare voce a Nina, la cameriera-scrittrice, come narratrice?
Con Nina volevo raccontare l’altra parte della nazione: quella bassa, fatta di poveri, popolani, serve, piccoli borghesi, di tutte quelle vite che scorrono ai margini della Storia ufficiale ma che, in realtà, la sostengono e la rendono possibile. Mi interessava dare spazio a chi non ha voce nei libri di storia, ma vive comunque gli stessi eventi, li subisce, li interpreta, li tramanda. Credo che il racconto di un Paese non possa prescindere da questa dimensione “dal basso”: i sovrani rappresentano l’immagine, ma sono i loro servitori, le loro cameriere, gli artigiani e le donne del popolo a dare sostanza alla nazione.
- Possiamo considerare Nina una sorta di alter ego dell’autrice, un occhio che media tra Storia e racconto?
No, non direi che Nina sia il mio alter ego. In realtà mi sento piuttosto lontana da lei per carattere e temperamento. Ci unisce però qualcosa di profondo: l’amore per la natura e il desiderio di esprimere noi stesse, di dare voce alla parte più autentica che ciascuna di noi custodisce. Nina trova nella scrittura e nella conoscenza un modo per emanciparsi; io, nella scrittura, trovo la possibilità di capire meglio il mondo e di restituire dignità a vite che, come la sua, spesso restano ai margini.
- Ogni città attraversata – Monza, Napoli, Roma – diventa un personaggio a sé. Quanto la geografia ha influito sulla costruzione narrativa?
Moltissimo. La geografia – e dunque anche l’ossatura del romanzo – è stata dettata dai luoghi in cui Margherita e Umberto hanno avuto le loro corti. Monza, Napoli e Roma non sono semplici scenografie: sono forze in campo, con climi morali, suoni, odori e ritmi sociali diversi che modellano i personaggi e spingono la trama in direzioni precise. Monza impone il rigore della Villa e del Parco; Napoli aggiunge un’energia popolare, barocca, contraddittoria; Roma pretende il linguaggio della rappresentazione, della politica e dei salotti.
E poi c’è l’Italia, che è un romanzo nel romanzo: un paese stratificato, dove accanto a un filare di platani trovi un secolo di storia, dove le cucine parlano quanto gli archivi, e il paesaggio – fiumi, colline, coste – entra nei caratteri delle persone. Scrivere questa storia ha significato ascoltare i luoghi: lasciarli agire sui protagonisti, sulle scelte, persino sul lessico. In un’Italia così ricca di natura e memoria, era naturale che la mappa diventasse struttura narrativa e che le città, con le loro luci e le loro ombre, parlassero quasi quanto i sovrani.
- La scrittura alterna rigore storico e libertà narrativa. Come ha trovato il giusto equilibrio tra documento e invenzione?
È stato un equilibrio cercato con pazienza, e mai del tutto scontato. Ogni volta che mi avvicinavo a un fatto documentato, sentivo la responsabilità di rispettarlo; ogni volta che entravo nella dimensione privata dei personaggi, dove le fonti si diradano, sapevo di dovermi fidare dell’immaginazione. Il confine, per me, è sempre stato la verosimiglianza: non tradire mai lo spirito del tempo, anche quando i dettagli cambiano.
Ho cercato di trattare le fonti come un tessuto, non come un vincolo. La documentazione serve a costruire credibilità, ma poi arriva un momento in cui bisogna lasciarla respirare, dare spazio alle emozioni, alla voce, al ritmo del racconto. La Storia offre le fondamenta; la narrativa, le finestre da cui entra la vita.
- Il riferimento alla ritrattistica ottocentesca – Winterhalter in primis – è stato una suggestione estetica o anche una vera e propria guida stilistica?
La ritrattistica ottocentesca mi ha offerto una chiave preziosa per entrare nell’immaginario dell’epoca. Quei volti, quelle stoffe, quei gesti studiati dicono molto più di quanto sembri: raccontano la costruzione della regalità, il peso delle apparenze, l’arte di nascondere l’emozione dietro la compostezza.
Da un lato, dunque, è stata una suggestione estetica – un modo per respirare la luce e le atmosfere del tempo; dall’altro, anche una guida stilistica, perché ho cercato di tradurre in parole lo stesso equilibrio tra grazia e rigidità, tra splendore e inquietudine, che si avverte nei dipinti. Come in un ritratto, anche nella scrittura mi interessava la tensione tra l’immobilità dell’immagine pubblica e il battito, spesso invisibile, della vita interiore.
- Se dovesse racchiudere in una sola parola la sua “prima regina”, quale sceglierebbe?
Libertà. Perché è la parola che attraversa tutto il romanzo, visibile o nascosta dietro le sue pieghe. Libertà non come assenza di vincoli, ma come ricerca continua di sé, dentro i ruoli, le convenzioni, le costrizioni sociali e di corte. È la libertà di pensare, di scegliere, di desiderare, di sbagliare perfino.
Margherita cerca la libertà di essere se stessa pur dentro il protocollo regale; Nina, quella di emanciparsi attraverso la conoscenza e la parola. Due percorsi diversi ma convergenti, che mostrano come la libertà non sia mai un punto d’arrivo, bensì un gesto quotidiano di coraggio. In fondo, credo che ogni storia, anche la più storica, parli di questo: del bisogno di dire “io” in un mondo che spesso ci chiede solo di obbedire.
- Ha raccontato di essersi isolata in montagna per scrivere: come ha influito questo “esilio volontario” sul tono e sul ritmo della narrazione?
Per me la scrittura è un’immersione totale. Quando lavoro a un romanzo, non riesco a considerarlo un’attività tra le altre: ci vivo dentro, lo abito, come si abiterebbe una casa nuova. Isolarmi in montagna mi permette proprio questo — togliere rumori, distrazioni, tempi artificiali — per entrare nel ritmo del libro, che è sempre più lento, più profondo, più vero di quello del mondo esterno.
In quel silenzio la voce dei personaggi diventa più chiara, il battito della narrazione più costante. È un “esilio” solo in apparenza: in realtà è un ritorno, un modo per abitare pienamente la storia che sto raccontando. Quando scrivo così, non sto semplicemente scrivendo un romanzo: lo sto vivendo.
- Raccontare Margherita significa anche parlare del presente? In che modo questo romanzo dialoga con la contemporaneità?
Sì, credo che ogni romanzo storico, se è vivo, parli inevitabilmente del presente. Raccontare Margherita di Savoia significa interrogarsi su temi che ci riguardano ancora: il rapporto tra potere e immagine, tra identità pubblica e fragilità privata, tra destino e libertà. Cambiano i costumi, i linguaggi, la tecnologia, ma non cambia il bisogno profondo di essere visti e riconosciuti per ciò che si è davvero.
In Margherita e in Nina c’è qualcosa che appartiene a tutte le donne – e, più in generale, a tutti gli esseri umani – che cercano un equilibrio tra dovere e desiderio, tra ciò che il mondo si aspetta e ciò che sentono dentro. Il passato diventa allora uno specchio: guardandolo, possiamo forse capire meglio chi siamo oggi e quanto ancora resti da conquistare in termini di libertà, consapevolezza e voce.
Recensione del libro
La prima regina
di Alessandra Selmi
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista ad Alessandra Selmi, in libreria con “La prima regina”
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