

N.d.r. A pochi giorni dalla Pasqua, torna alla mente il testo di Il testamento di Tito, la canzone di Fabrizio De André inserita nell’album La buona novella, in cui il protagonista e voce narrante è Tito, il buon ladrone crocifisso con Gesù.
Ad accompagnarci nella lettura critica del testo della canzone sarà il nostro collaboratore Mario Bonanno, critico musicale e autore del saggio Non avrai altro Dio all’infuori di me spesso mi ha fatto pensare. La buona novella di Fabrizio De André, 50 anni dopo (Stampa Alternativa, 2020).
Genesi dell’album La buona novella di Fabrizio De André
di Mario Bonanno


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Le spore anti-sistema che percorrono sotto traccia La buona novella si innervano nel resto della discografia di Fabrizio De André. Ne sono, come dire, l’espressione caratterizzante, al pari dell’afflato anarco-pacifista. Comincio da questo enunciato per sconfessare, una volta di più, la circospezione con cui in tanti salutarono il disco alla sua prima uscita nel 1970. In altre parole: La buona novella è un album emblematico, continuativo e prodromo al tempo stesso , di quell’umanesimo a-confessionale e a-partitico, che è la cifra indicativa delle ballate deandreiane. Gli anni in cui Fabrizio De André concepisce e poi scrive La buona novella, se da un lato costituiscono l’acme dell’idealità libertaria anni Sessanta, dall’altro sono assumibili come prologo virulento e sacrosanto delle lotte sociali del decennio a seguire. Intanto che la guerra in Vietnam si reitera, l’America dei campus rinvigorisce la protesta, nel 1968 viene ucciso Martin Luther King, i carrarmati sovietici invadono la Cecoslovacchia, a Praga Jan Palach si dà fuoco in piazza Venceslao, e il Maggio francese deflagra, dando la stura al Sessantotto europeo. De André naviga per i ventotto con diverse inquietudini e altrettante curiosità. Ha inciso sin qui tre dischi che, forti del continuo passaparola, spopolano tra i giovani più inclini al cambiamento. Quando pubblica La buona novella sono passati altri due anni. In Italia è passato, soprattutto, l’autunno caldo delle manifestazioni studentesco-operaiste. Ed è passato (?) il botto di Piazza Fontana con cui, nel ‘69, si inaugura l’evo della strategia della tensione. Anche per ciò nessuno avrebbe scommesso sulla fortuna di un album così.
Un disco soltanto in apparenza avulso dall’attualità, poiché anche in La buona novella ciò che più conta per Fabrizio De André è rinquadrare le storie dei protagonisti del vangelo ufficiale, dal focus degli anonimi, dei senza potere. L’umanità che affiora tra i testi è di conseguenza un’umanità concreta e dunque credibile. Un’umanità-simbolo, soggiogata da un Potere (nella fattispecie sacerdotale) autoreferente e prevaricante. Nessun cedimento apologetico in De Andrè. Anti-agiografici risultano i tratteggi di Giuseppe (costretto a sposare una “bambina” su cui “non aveva intenzione”) e della stessa Maria, dapprima immolata precocemente al Tempio, quindi – al primo apparire delle mestruazioni – obbligata alle nozze con un uomo molto più vecchio di lei. L’aspetto più spiazzante di un album interamente incentrato sui vangeli apocrifi risiede, peraltro, nella totale assenza ritrattistica di Gesù (non un miracolo, nessun orto del Getsemani, nessun “allontana da me questo calice”), evocato per interposta persona e in quanto uomo, piuttosto che aureolato figlio di Dio (“non voglio pensarti figlio di dio / ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”). I tratteggi interiori dei personaggi deandreiani si stagliano come espressioni di un umanesimo dolente e compartecipe al contempo. Si tratti del buon ladrone Tito che, dopo aver sottratto i comandamenti dal piano della trascendenza (Il testamento di Tito), approda a una dimensione interiore quasi misericordiosa (“nel vedere quest’uomo che muore / madre io provo dolore”). Si tratti di Maria che, bambina, divide nel Tempio “il tempo fra cibo e signore”, e all’apparire di un angelo che “forse era sogno, ma sonno non era” è al contempo tentata e sgomenta. Si tratti – ancora – delle madri dei ladroni che ai piedi della croce rivendicano nei confronti di Maria-madre-di Dio il diritto di “piangere più forte/ chi non risorgerà più dalla morte” (Tre madri). Ma è nel lungo cammino che porta alla cima del Golgota, che l’umanità oppressa di Fabrizio De André palesa, seppure a mezza voce, il diritto di esprimersi su un uomo (Gesù) e su un evento (la sua venuta al mondo) che l’ha coinvolta e, in qualche modo, sconvolta (la strage dei primogeniti maschi ordinata da Erode, l’evangelo dirompente della predicazione di Cristo, la sua spiazzante condanna a morte). Traspare insomma dalle strofe di De André tanto l’odio viscerale dei padri e delle madri dei neonati sterminati dal tiranno in vece sua (“poterti smembrare coi denti e le mani/ sapere i tuoi occhi bevuti dai cani/ di morire in croce puoi essere grato/ a un brav’uomo di nome Pilato”), quanto lo strazio delle vedove, delle fedeli “schiave ancor prima di Abramo” per la fine imminente “di chi perdonò Maddalena/ di chi con un gesto soltanto fraterno/ una nuova indulgenza insegnò al padreterno”. E d’altro canto, si segnala anche l’umanissima pavidità degli apostoli che
“confusi alla folla ti seguono muti/ tremanti al pensiero che tu li saluti/ A redimere il mondo, gli serve pensare/ il tuo sangue può certo bastare/ La semineranno per mare e per terra/ tra boschi e città la tua buona novella/ ma questo domani, con fede migliore/ stasera è più forte il terrore”.
La buona novella si offre all’ascolto come album cruciale che aggiorna il peace & love della cultura hippy alla protesta pre e post sessantottina. Un Jesus Christ Superstar con più spessore, e Il testamento di Tito risulta essere, in tal senso la canzone-paradigma dell’intero lavoro.
“Il testamento di Tito”: testo della canzone
di Corrado Castellari / Fabrizio De André
Non avrai altro Dio all’infuori di me
Spesso mi ha fatto pensare
Genti diverse venute dall’est
Dicevan che in fondo era uguale
Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male
Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male
Non nominare il nome di Dio
Non nominarlo invano
Con un coltello piantato nel fianco
Gridai la mia pena e il suo nome
Ma forse era stanco, forse troppo occupato
E non ascoltò il mio dolore
Ma forse era stanco, forse troppo lontano
Davvero lo nominai invano
Onora il padre, onora la madre
E onora anche il loro bastone
Bacia la mano che ruppe il tuo naso
Perché le chiedevi un boccone
Quando a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
Quanto a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
Ricorda di santificare le feste
Facile per noi ladroni
Entrare nei templi che rigurgitan salmi
Di schiavi e dei loro padroni
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali
Il quinto dice non devi rubare
E forse io l’ho rispettato
Vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
Di quelli che avevan rubato
Ma io, senza legge, rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio
Ma io, senza legge, rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio
Non commettere atti che non siano puri
Cioè non disperdere il seme
Feconda una donna ogni volta che l’ami
Così sarai uomo di fede
Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
E tanti ne uccide la fame
Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore
Ma non ho creato dolore
Il settimo dice non ammazzare
Se del cielo vuoi essere degno
Guardatela oggi, questa legge di Dio
Tre volte inchiodata nel legno
Guardate la fine di quel nazzareno
E un ladro non muore di meno
Guardate la fine di quel nazzareno
E un ladro non muore di meno
Non dire falsa testimonianza
E aiutali a uccidere un uomo
Lo sanno a memoria il diritto divino
E scordano sempre il perdono
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore
Non desiderare la roba degli altri
Non desiderarne la sposa
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
Che hanno una donna e qualcosa
Nei letti degli altri già caldi d’amore
Non ho provato dolore
L’invidia di ieri non è già finita
Stasera vi invidio la vita
Ma adesso che viene la sera ed il buio
Mi toglie il dolore dagli occhi
E scivola il sole al di là delle dune
A violentare altre notti
Io nel vedere quest’uomo che muore
Madre, io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore
Madre, ho imparato l’amore
“Il testamento di Tito”: analisi del testo della canzone
di Mario Bonanno
“L’ultima canzone dell’album è il momento più alto de La buona novella, perché Tito, il cosiddetto ladrone buono, confutando tutti i dieci comandamenti mette in risalto la contraddizione che c’è fra chi sta al potere, cioè cerca di fare le leggi a sua immagine e somiglianza, e invece chi le leggi è costretto a subirle certe volte anche contro il proprio interesse (…) Insieme ad Amico fragile, la mia miglior canzone. Dà un’idea di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha. È un altro di quei pezzi scritti col cuore, senza paura di apparire retorici, che riesco a cantare ancora oggi, senza stancarmene” (Fabrizio De André).
Tito è dunque il “buon ladrone” dei vangeli canonici, colui che si guadagna la salvezza grazie al pentimento in punto di morte:
“Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. “In verità ti dico: oggi sarai con me in Paradiso”, Luca 23, 39-43
Gli apocrifi tacciono sui toni del dialogo (presunto) della croce, ma del resto a De André poco interessa l’edulcorazione di Tito, “anima salva” di per sé, condannata dal Sistema alla marginalità, quindi alla pena di morte. Fabrizio De André affida al ladro (al ladro e basta, né buono né cattivo, nella Buona novella non si assegnano attribuzioni di merito) l’ultima parola del suo disco più poetico e irredento. Attraverso la confutazione delle leggi sacre, Tito si fa portavoce del riscatto e insieme della blasfemia più vigorosa che si possa rivolgere al Cielo dei privilegiati. Con la capillare contestazione dei dogmi, della morale, di ogni valore imposto in nome di un Dio fittizio, inventato dai potenti per il mantenimento dei loro privilegi, Il testamento di Tito rivela il punto di vista degli oppressi di ogni tempo. Si (im)pone come atto di dolore e insieme come denuncia di chi le leggi sacre non le ha scritte, e le ha piuttosto sofferte.
Il gesto di accusa è manifesto: per voce di Tito, l’anarchismo di Fabrizio De André interseca intimamente il messaggio rivoluzionario di Cristo, esfoliandolo da ogni fronzolo agiografico e metafisico. Il Testamento di Tito discende, più che mai, dalle istanze sessantottine: Tito, figlio del popolo (fuori metafora, un ladro-proletario, un politicizzato giocoforza) demitizza la figura del Padre contestandone il Verbo (la subdola teleologia, le leggi autoreferenziali), riconducendolo al rango di imputato eccellente per reiterata azione sopraffattiva. La condanna è implicita e senza alcun appello: si salva Gesù (“io nel vedere quest’uomo che muore/ madre, io provo dolore”), in quanto umile e lasciato solo, in primo luogo da Colui nel quale aveva creduto (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, Marco 15,33-37). Vittima a sua volta, dell’azione coercitiva esercitata dalle classi egemoni.
Tito: Non avrai altro Dio all’infuori di me, spesso mi ha fatto pensare
genti diverse venute dall’est dicevan che in fondo era uguale
Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male
Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male
Non avrai altro Dio all’infuori di me, rivela – ab origine – il dogma autoreferente su cui poggia la dottrina cattolica. Tito ne contesta la rigidità, allargando la professione di fede a coloro i quali si professano appartenenti ad altre confessioni (“genti diverse venute dall’est/ dicevan che in fondo era uguale/ Credevano a un altro diverso da te/ e non mi hanno fatto del male”). La fissità integralista del primo comandamento si dissolve sotto-testo in un appello alla tolleranza: dovunque c’è il bene c’è Dio. O meglio: c’è l’utopia rivoluzionaria portata avanti dal messaggio di Cristo.
Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano
Con un coltello piantato nel fianco gridai la mia pena e il suo nome
ma forse era stanco, forse troppo occupato e non ascoltò il mio dolore
ma forse era stanco, forse troppo lontano davvero lo nominai invano
Qui si sfiora il tema del cosiddetto “silenzio di Dio” (in alcune circostanze un silenzio sperimentato persino da Gesù). Detta fuori dai denti: nel momento del bisogno, Dio non c’è. Hai voglia a gridare “la mia pena/ e il suo nome”, Dio è il grande assente. Lo è da sempre. Un concetto vago che non incide sulla buona o la cattiva sorte degli uomini. Compresi gli uomini che confidano in lui (“ma forse era stanco, forse troppo occupato/ e non ascoltò il mio dolore/ Ma forse era stanco, forse troppo lontano/ davvero lo nominai invano”).
Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone
bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone
Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore
Quanto a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore
Poste dalla legge su un piedistallo di onnipotenza, le figure genitoriali rappresentano i surrogati terreni di Dio. Ne sono, come dire, la longa manus, attraverso cui perpetuare la legge valoriale dei padri, votata all’obbedienza supina e al rispetto unilaterale. Ma fino a che punto è lecito amare chi educa con la forza? Baciare “la mano che ruppe il tuo naso/ perché le chiedevi un boccone”? Anche in questo passaggio, La buona novella si rivela intrinseca alla rivoluzione sessantottesca, che, fra i tanti ruoli, demistifica il ruolo del padre (“quando a mio padre si fermò il cuore/ non ho provato dolore”).
Ricorda di santificare le feste, facile per noi ladroni
entrare nei templi che rigurgitan salmi di schiavi e dei loro padroni
senza finire legati agli altari sgozzati come animali
senza finire legati agli altari sgozzati come animali
Alle prese con il quarto comandamento, il “buon ladrone” denuncia il contenuto ipocrita del rito religioso. Le cose stanno così: la chiesa necessita dei potenti, e i potenti si servono della chiesa per le loro passerelle lava-coscienza (“Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati” ammoniva, del resto, Gesù. Matteo 23,23-39). Il Tempio – lo stesso in cui viene rinchiusa Maria bambina dei Vangeli apocrifi – pullula insomma “di schiavi e dei loro padroni”, abbonda cioè di egoismo e ipocrisia.
Il quinto dice non devi rubare e forse io l’ho rispettato
vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato
ma io, senza legge, rubai in nome mio quegli altri nel nome di Dio
Ma io, senza legge, rubai in nome mio quegli altri nel nome di Dio
Tito ruba per interesse proprio, senza fini reconditi. “Quegli altri” – i ricchi, i sacerdoti, gli esattori – ammantano invece il loro latrocinio di nobili intenti, rubando “nel nome di Dio”. La dicotomia può rimarcarsi con altre parole: Tito – uomo e ladro sopravvivente, anarchico, “senza legge” – ruba per sfangarla ogni giorno (peraltro “svuotando le tasche già gonfie/ di quelli che avevan rubato”), “quegli altri”, pure se mossi dallo stesso egoismo, rubano mistificando il loro rubare attraverso i pretesti dei ricchi e dei potenti della terra.
Non commettere atti che non siano puri, cioè non disperdere il seme
Feconda una donna ogni volta che l’ami così sarai uomo di fede
Poi la voglia svanisce e il figlio rimane e tanti ne uccide la fame
Io forse ho confuso il piacere e l’amore ma non ho creato dolore
La liberazione sessuale del Sessantotto cassa radicalmente l’assioma della morale cattolica sesso=amore. Mosso dal libertarismo deandreiano, Tito rivendica il diritto di confondere “il piacere e l’amore” in nome di una pianificazione delle nascite ante litteram. È più grave copulare generando figli che non si potranno mantenere (“poi la voglia svanisce e il figlio rimane/ e tanti ne uccide la fame”) oppure fornicare per l’esclusivo piacere di farlo? In totale congruità con lo spirito degli anni in cui viene scritta, La buona novella deandreiana leva l’indice contro lo Stato (altro surrogato terreno di Dio), artefice di leggi indiscutibili, liberticide, persino omicide. Le leggi secondo le quali condanna ladri poveri cristi e Cristo stesso, senza colpa effettiva, contraddicendo peraltro il comandamento che recita non ammazzare (“Guardatela oggi, questa legge di Dio/ tre volte inchiodata nel legno/ guardate la fine di quel Nazareno/ e un ladro non muore di meno”).
Non dire falsa testimonianza, e aiutali a uccidere un uomo Lo sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne provo dolore Ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne provo dolore
Il discorso sull’amministrazione della giustizia coinvolge anche il comandamento che vieta la falsa testimonianza. Secondo Tito, la delazione può comportare la condanna a morte di un essere umano. Per questo si dichiara favorevole alla menzogna a fin di bene, non riconoscendosi in concetti mistificatori come quello di Dio e dell’onore. (“ho spergiurato su Dio e sul mio onore/ e no, non ne provo dolore”). Meglio la misera sfacciataggine di Tito che le falsità di soloni e sacerdoti che fanno sfoggio delle leggi divine, sorvolando su quella fondamentale del perdono (“lo sanno a memoria il diritto divino/ e scordano sempre il perdono”).
Non desiderare la roba degli altri, non desiderarne la sposa Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi che hanno una donna e qualcosa
Nei letti degli altri già caldi d’amore Non ho provato dolore L’invidia di ieri non è già finita, stasera vi invidio la vita
Il senso del possesso genera l’invidia verso cose e persone altrui. Da anarchico ante litteram, e con una certa legittimità, Tito non crede nella proprietà privata, meno che mai crede che qualcuno possa appartenere a qualcun altro. Per ciò questa strofa del suo Testamento assembla il nono e il decimo comandamento, incentrandosi soprattutto sul divieto di desiderare le donne altrui. All’atto sessuale coniugale – inteso come atto spesso doveroso, privo di slanci –, Tito privilegia l’atto sessuale mosso dal desiderio fine a se stesso, e questo lo solleva dai sensi di colpa (“nei letti degli altri già caldi d’amore/ non ho provato dolore”). La sola invidia sperimentata nei confronti dei farisaici detentori di donne e potere, è quella della vita, che secondo una giustizia per privilegiati, tra poco gli verrà sottratta come ennesima prevaricazione.
Ma adesso che viene la sera ed il buio, mi toglie il dolore dagli occhi
E scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti
Io nel vedere quest’uomo che muore, Madre, io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore, Madre, ho imparato l’amore
Le ultime due quartine sono permeate da un’aura crepuscolare, quasi pacificata. Il buio sta calando sul Golgota come una finale indulgenza (“ma adesso che viene la sera ed il buio/ mi toglie il dolore dagli occhi”). Il livore con cui il ladro buono ha decostruito le leggi di Dio (o dell’uomo?), si stempera ora in un sentimento di pietà, maturato nei confronti di Gesù che sulla croce sta spegnendosi come uomo qualunque (“io nel vedere quest’uomo che muore/ Madre, io provo dolore/ Nella pietà che non cede al rancore/ Madre, ho imparato l’amore”). Risiede in questa pietas, in questo estremo e gratuito senso di comunanza, la vera redenzione del cosiddetto buon ladrone. Nessun tardivo atto di dolore, nessun pentimento, soltanto il sentirsi per la prima volta vicino a un altro essere umano, tanto diverso eppure così simile a Tito. Apparentabile nel dolore alla progenie degli sconfitti, umiliati nella vita come nella morte.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il testamento di Tito”: le parole del buon ladrone nella canzone di Fabrizio De André
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