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Storia della letteratura

I luoghi dell’Orlando Furioso: lo spessore simbolico dello spazio nel poema di Ariosto

Un’incursione nei luoghi dell’Orlando furioso ci svela una concezione pessimistica della vita, perché Ariosto, come puntualizza il Branca, non è uno scrittore apollineo e ci mostra la spazializzazione dell'interiorità.

Isabella Fantin
Isabella Fantin Pubblicato il 01-12-2022
I luoghi dell'Orlando Furioso: lo spessore simbolico dello spazio nel poema di Ariosto

La selva, i palazzi incantati, la nicchia della follia, il vallone della luna sono alcuni dei luoghi-simbolo dell’“Orlando furioso” di Ludovico Ariosto. Se è vero che sono il prodotto della fantasia dell’autore, è altrettanto vero che riflettono la sua concezione del mondo, fondamentalmente laica e pessimista. Vediamo insieme perché.

Nell’Orlando Furioso, la selva ha contorni asettici, priva com’è di connotati geografici e ambientali precisi. Appare in due varianti fortemente polarizzate:

  • la selva oscura di ascendenza dantesca
  • il locus amoenus riconducibile al paradiso terrestre.

Nella prima, il cavaliere si perde o si addentra travolto dall’avventura della ricerca (quête). Nel secondo, invece si ferma. Infatti, un’eterna primavera, un’atmosfera di felicità, la bolla di un tempo sospeso, una natura addomesticata ne fanno la sede ideale per godere delle gioie d’amore.

Generalmente la selva è il luogo in cui i personaggi erranti si imbattono in qualcosa di diverso dai loro desideri. In breve: non trovando mai ciò che cercano, sono costretti ad avanzare. Nel poema la macchina narrativa della quête funziona così, come osservò tra i primi il Pasquali.

A differenza di Tasso – il cui epicentro dell’azione è il campo cristiano dove i paladini ritornano secondo un movimento centripeto -, in Ariosto l’errare è circolare. Ricordate Ferraù, cavaliere saraceno? Nella selva, dove cerca il suo elmo, s’imbatte nella bella Angelica che non esita a inseguire. Poi, tornato al punto di partenza, riprende la ricerca interrotta. Analogamente l’oggetto del desiderio di Rinaldo in successione è: il destriero Baiardo, Angelica, di nuovo il suo cavallo baio. Sorprende la facilità con cui i personaggi sostituiscono i loro oggetti del desiderio. È l’Ariosto a spiegarci il motivo quando afferma

“ecco il giudicio uman come spesso erra”.

Il che a dire: non solo i personaggi si muovono a vuoto nello spazio, ma nel perimetro della loro interiorità. Incatenati dalla tensione del desiderio inappagato, si agitano e affannano invano. Numerosi commenti ariosteschi depongono in questa direzione. L’autore è pessimista nei confronti della possibilità della ragione di pilotare ordinatamente la vita, sottraendola all’irrazionalità del Caso. A lui si deve la consapevolezza dei limiti esistenziali dell’uomo nel primo Cinquecento.
La doppia accezione di luogo edenico e misterioso, proprio della selva, si concretizza in alcune forme dal rilievo simbolico.

Perché non ricordiamo il palazzo incantato del mago Atlante? Il palazzo è luogo di convergenza e intersezione di molteplici diramazioni narrative, dove Orlando, Ferraù, Sacripante, Ruggiero seguono l’oggetto dei loro desideri. Regno dell’inganno perché i paladini in realtà inseguono il simulacro dell’oggetto, ciascuno prigioniero nella fissità della propria ricerca.
Si tratta di una suggestiva metafora della nostra esistenza, perché Ariosto "spazializza la coscienza". L’uomo si perde a inseguire miraggi inconsistenti, incapace di imprimere una direzione unitaria e stabile al proprio progetto di vita. Questa visione è riconducibile a un orizzonte laico e pessimista, scettico intorno all’effettivo potere della ragione.

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Anche la follia è un traslato dell’esistenza, come dimostra il celebre passo in cui Orlando perde il senno. Anzi, gli inganni della coscienza del paladino – a fronte delle prove dell’amore tra Angelica e Medoro -, anticipano di secoli la psicanalisi. E quando essere cieco a se stesso non basta per evitare una verità che fa male, ecco esplodere la pazzia in tutta la sua forza distruttiva. Non è forse un’altra prova dello scetticismo di Ariosto verso le nostre capacità razionali?

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Nella luna, infine, hanno cittadinanza solo le cose vane. Il suo regno è ricalcato sul mondo dei sogni dell’Alberti, sulla vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste. Colonizzata da labili progetti, sospiri tra amanti, tempo speso nell’ozio e preghiere non mantenute. Ariosto ripropone sulla luna in modo speculare tutto ciò che l’uomo ha perso per caso o dolo sulla terra. L’obiettivo è mostrare agli uomini di cosa sia fatto il mondo terreno.

Provate a indovinare cosa non si trova sulla luna? La pazzia, ma in compenso nel corpo celeste caro a Leopardi di senno ce n’è una montagna!

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: I luoghi dell’Orlando Furioso: lo spessore simbolico dello spazio nel poema di Ariosto

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