Il titolo scelto da Pietro Metastasio per il suo primo melodramma, Didone abbandonata, portato in scena a Napoli nel 1724, coglie la caratteristica cruciale dell’eroina virgiliana: la vera tragedia di Didone non è quella del suicidio, ma l’abbandono.
In occasione della Giornata mondiale del teatro ripercorriamo la modernità dell’opera di Metastasio e scopriamo le differenze tra la sua protagonista e l’eroina virgiliana.
Nell’Eneide di Virgilio il personaggio di Didone non è che una comparsa, che avrà un ruolo fondamentale per lo svolgimento del IV e del VI Libro, ma è destinata ad eclissarsi all’ombra dell’eroe; nel melodramma di Pietro Metastasio invece è lei l’indiscussa protagonista della sua storia.
Didone abbandonata di Metastasio: la trama dell’opera
Il melodramma di Metastasio inizia in medias res, proprio dall’abbandono di Enea che rivela le sue intenzioni a Osmida (confidente della regina) e Selene (questo il nome della sorella di Didone nell’opera, Ndr). L’eroe ha già deciso di abbandonare Cartagine, per tener fede alla promessa fatta al padre Anchise, ma ancora non l’ha comunicato alla Regina. Didone tuttavia ha uno strano presentimento, sente che l’amato si sta allontanando da lei e non ne capisce il motivo.
Nel frattempo giunge alla reggia cartaginese Iarba, il re dei Mori, che in una solenne cerimonia chiede la mano a Didone.
La regina rifiuta la proposta di Iarba, dicendo di amare Enea e di essere intenzionata a sposarlo. Una volta scoperto il suo rivale in amore, Iarba decide di ucciderlo con l’inganno servendosi dell’aiuto del traditore Osmida e dal fido Araspe. Ma quando il Re, camuffatosi sotto falsa identità, cerca di trafiggere Enea con la spada interviene Didone e Iarba è costretto a rivelarsi.
Enea e Didone rimangono soli e ha luogo lo straziante dialogo che conclude il primo atto in cui l’eroe è costretto a dire alla regina cartaginese che il dovere lo costringe a partire.
In seguito alla dichiarazione Enea è affranto e in un lungo monologo proclama a gran voce il suo dolore:
E intanto, confuso
nel dubbio funesto,
non parto, non resto,
ma provo il martire
che avrei nel partire,
che avrei nel restar.
La regina, però, è furente e si aggira per la reggia in preda all’angoscia dettata dalla pena amorosa. Mentre Enea prepara la partenza, Didone finge di cedere alle insistenti richieste di re Iarba per accendere nell’amato la gelosia e così convincerlo a restare. Chiede quindi ad Enea di assistere alle sue nozze e sotto i suoi occhi accetta la mano di Iarba. Ne la Didone abbandonata vive anche il dramma ardente della gelosia: non solo nel sentimento suscitato dalla regina in Enea sottoforma di vendetta, ma anche nelle vicende secondarie di Selene e Araspe che si intrecciano a quella principale. Selene è infatti segretamente innamorata di Enea e per questo motivo rifiuta Araspe, servitore di re Iarba, che arde di passione per lei.
Enea decide comunque di partire, e a quel punto a Iarba è chiaro l’inganno, capisce che la regina è ancora innamorata dell’eroe. Capendo che Didone non potrà mai essere sua, Iarba dichiara vendetta e minaccia di radere al suolo l’intera città.
Dopo un ultimo duello con Enea in cui rischia di essere ucciso, il re arabo decide di porre in atto il proprio piano.
Le fiamme avvolgono Cartagine mentre le navi troiane si allontanano via mare. Dopo alcuni tentennamenti Didone rinuncia a porsi in salvo.
Rifiuta l’ultima estrema proposta da parte di Iarba e si getta tra le fiamme della reggia che è divenuta una pira infuocata.
Metastasio mette in scena il dramma, il dilemma che dilania la regina prima del gesto estremo. Didone sconvolta si chiede “Dunque morir dovrò?”
Vado... Ma dove?... Oh dio!
Resto... Ma poi, che fo!
Dunque morir dovrò
senza trovar pietà?
Nel finale la regina decide di consegnarsi alla sua città, obbedisce alla legge del dovere e rinnega l’amore: precipiterà con Cartagine, la sua patria diverrà la sua tomba. Significativo, a tal proposito, il contrasto con il gesto estremo della Didone virgiliana: nell’Eneide Didone si getta sulla spada che Enea aveva lasciato, mentre Metastasio sceglie per lei la morte degna di una regina che consacra sé stessa interamente al suo regno.
E v’è tanta viltà nel petto mio?
No no. Si mora. E l’infedele Enea
abbia nel mio destino
un augurio funesto al suo cammino.
Precipiti Cartago,
arda la reggia e sia
il cenere di lei la tomba mia.
Metastasio decide di non optare per un finale cupo. La sua Didone muore, è vero, ma non è del tutto vinta. Quando la regina si getta nelle fiamme ecco che l’impeto del fuoco si confonde con il boato delle onde marine in una scena poetica. Più crescono le fiamme che lambiscono la città di Cartagine più cresce la potenza delle acque marine. Il contrasto tra fuoco e acqua culmina in una terribile tempesta. Ma infine è il cielo a trionfare. Placate le fiamme e le acque, ecco che dal mare improvvisamente calmo e piatto emerge la divina reggia di Nettuno. Il dio del mare fuoriesce dalle acque in una carrozza trainata da mostri marini e, stringendo il suo tridente, proclama che “tutti i regni del mar tornino in calma.”
La Didone abbandonata di Metastasio si conclude con un inatteso messaggio di speranza. La sinfonia si fa lieta e la natura sembra ripristinare l’armonia originaria del cosmo corrotta dalle vicende umane.
Didone: dal mito virgiliano al dramma di Metastasio
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Il fascino della Regina di Cartagine permane immutato nel tempo: il mito classico ce la presenta come una donna di potere capace di fondare una città ricca e fiorente “ingentia moenia” e di amministrarla con perizia, svolgendo anche un’importante funzione civilizzatrice. La grande sovrana fenicia, celebrata in quanto grande stratega e protettrice del suo regno, viene però travolta dal vento della passione che la acceca.
In Virgilio, tuttavia, il dissidio vissuto dalla regina viene rappresentato come il dramma di una martire che decide di immolarsi in nome della sua fedeltà di vedova nei confronti del marito defunto Sicheo. Il suicidio di Didone nell’Eneide risponde a una chiara volontà di rappresentazione simbolica: privandosi della vita la regina preserva anche la sua purezza, ma non esita a lanciare la sua maledizione su Enea e i suoi discendenti. La tragica morte di Didone per Virgilio diventa azione necessaria per l’inserimento del mito eziologico della rivalità tra Roma e Cartagine. Si tratta di una tappa cruciale della storia di Enea, del viaggio dell’eroe, e l’intera vicenda della regina fenicia deve essere letta in quest’ottica, almeno nella visione storica. Virgilio attraverso Didone mette in scena il dramma del pudor, trasformandola in un’eroina della castità coniugale come voleva la tradizione dell’epoca.
Il legame tra la Didone virgiliana e la Didone metastasiana è da individuare in Ovidio che nel settimo libro delle Heroides ci presenta per la prima volta La versione di Didone. Ovidio consegna la penna a Didone e la rende protagonista facendole scrivere una lettera all’amato. Nella lettera assistiamo alla riscrittura della vicenda di Enea da parte di Didone, la regina chiede all’eroe di rimanere a Cartagine proiettando il viaggio dell’eroe in una prospettiva femminile che ci spinge a vedere le criticità insite nel racconto epico.
Seguendo la rilettura ovidiana Pietro Metastasio nella sua opera pone l’accento sul dramma della passione che travolge la regina facendo venir meno in lei persino il sacro senso del “dovere”. La Didone di Metastasio si emancipa dalla figura di Enea, diventa l’esempio paradigmatico di una personalità irrisolta, contraddittoria, in sintesi: moderna. Didone si fa riflesso del sentimento che la divora come una pira avvolta dalle fiamme. Il dramma della regina di Cartagine si consuma in vita, non con la sua morte. Per questo motivo Metastasio parte da qui per narrare la sua storia: non dal suo trionfo come sovrana, ma dall’abbandono da parte dell’uomo amato. Metastasio si concentra sul dolore di Didone come donna e non come regina, in questo risiede la straordinaria modernità della sua opera.
Nel melodramma metastasiano Didone non è un personaggio funzionale allo svolgimento del poema epico, non è una pedina necessaria al movimento dell’eroe, ma diventa lei stessa eroina e protagonista di una tragedia che è solo sua, che nasce e muore con lei.
Didone abbandonata di Metastasio: la rappresentazione scenica
Il primo melodramma di Metastasio fu rappresentato a Napoli il 1° febbraio del 1724, in occasione del Carnevale.
Il ruolo della protagonista il grande drammaturgo lo affidò alla sua musa: Marianna Benti Bulgarelli, detta “La romanina”, colei che aveva coltivato il suo genio poetico allevandolo con affetto al contempo materno e romantico nella sua casa.
C’è chi insinua che l’opera stessa, Didone abbandonata, Metastasio la scrisse proprio per lei, cucendo il personaggio della regina di Didone letteralmente addosso alla donna reale incarnata dalla Romanina.
La parte di Enea fu invece affidata a Nicola Grimaldi e le musiche per la rappresentazione furono composte da Domenico Sarro. La prima fu un successo e Metastasio seguì la tournée nei teatri di tutta Italia e in seguito anche all’estero adeguando, con estrema sagacia, il libretto a ogni nuova rappresentazione per rimodellare arie e recitativi ai nuovi interpreti e al gusto del pubblico francese, spagnolo, tedesco.
La qualità letteraria de La Didone abbandonata non si discute: l’autore ebbe l’intuizione di incentrare l’opera sul dramma vissuto in prima persona dalla regina che avverte in sé la profonda scissione tra senso del dovere e passione. Metastasio mescola eros e thanatos, qualità proprie del melodramma francese, con l’iconografia classica del mito e con l’originalità di una rappresentazione esotica propriamente barocca.
La coreografia della prima napoletana fu sfarzosa ed esotica: il Re Iarba faceva il suo ingresso in scena accompagnato da leoni e altre “fiere” selvatiche e nel gran finale si assisteva allo scenografico incendio della reggia di Cartagine. Lo spettacolo ammaliò il pubblico seicentesco, colpendo il cuore dell’immaginario collettivo. Metastasio aveva trasformato la Didone virgiliana in un’eroina moderna, ribaltandone persino l’ingrata sorte in un presagio di speranza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Perché la Didone abbandonata di Pietro Metastasio è un’eroina moderna
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