Il nome della rosa è un’opera su cui sono state scritte decine di saggi, già la sua natura ibrida, che unisce diversi generi letterari, è stata al centro di numerose riflessioni. Eco non amava che il suo testo venisse liquidato come un giallo storico, con un Guglielmo da Baskerville appiattito a epigono del connazionale investigatore Sherlock Holmes; Il nome della rosa è un romanzo storico e di formazione, vorrebbe imitare una cronaca medievale, propone dispute filosofiche e teologiche, e l’elenco delle classificazioni potrebbe continuare ancora.
Tra i critici letterari, vi è chi afferma che un libro sia un capolavoro quando riesce a suscitare molteplici interpretazioni, e già il titolo Il nome della rosa è denso di significati, ed è stato letto in diversi modi. Nel testo, poi, l’autore è riuscito a tessere una ramificazione di rimandi ad altre opere tale che egli stesso ha dichiarato che il suo lavoro “è una macchina per generare interpretazioni”. Indubbiamente possedeva una notevole capacità di rielaborare e assemblare delle fonti.
Molte sono le suggestioni ravvisabili a seconda della sensibilità e della cultura dei singoli lettori; Eco segue lo stile dei testi medievali, quando il suo protagonista sta iniziando a raccontare le vicende che ha vissuto scrive: “La gioventù non vuole apprendere più nulla, la scienza è in decadenza, il mondo intero cammina sulla testa” e queste parole – per esempio – possono ricordare vagamente quelle usate da Gregorio di Tours (539-594) nella Prefazione della Storia dei Franchi, ma forse si tratta solo di un’impressione.
Quando Eco scrive: “Ormai è più piacevole per il monaco leggere i marmi che non i manoscritti”, può tornare invece alla mente il “libro di granito” su cui studia Frollo in Notre-Dame de Paris (1831). In fondo Il nome della rosa è un Notre-Dame de Paris del Novecento; certo, il lavoro di ricostruzione storica compiuto dallo scrittore italiano è superiore a quello di Victor Hugo, ma l’effetto è simile: Eco ha raccontato una vicenda ambientata sul finire del 1327, mentre il padre del Romanticismo francese all’inizio del 1428, ma entrambi gli artisti non vollero scrivere un saggio storico, bensì rappresentare con la narrativa la loro idea della storia o di un’epoca storica.
Accanto alle possibili citazioni “nascoste”, però, ce ne sono anche di esplicite, tra le quali alcune che risultano tuttavia impossibili nel tempo in cui sono inserite, è un erudito artificio letterario rivolto al lettore colto. Questo breve articolo è nato appunto per segnalare due riferimenti di questo tipo.
Le citazioni impossibili de Il nome della rosa
Il primo si trova nel capitolo “Quinto giorno Nona”, in cui è citato il Libro Occulto di San Cipriano. Esso è un grimorio attribuito a Cipriano d’Antiochia (?-302), ancora oggi molto conosciuto soprattutto in Portogallo e in Brasile per via della sua versione in portoghese, apparsa per la prima volta nel 1846. La cultura popolare ha confuso la leggenda di Cipriano d’Antiochia, uno stregone convertitosi al Cristianesimo, con la storia di Cipriano di Cartagine (210-258) venerato come santo dalla Chiesa Cattolica, ma ciò che in questa sede ci interessa è che il Libro occulto di San Cipriano, detto anche “Il tesoro dello stregone”, è solo un volgare falso storico del XVII secolo e quindi nel medioevo era ovviamente sconosciuto.
Nel capitolo “Sesto giorno Terza” è poi inserita un’ulteriore citazione palese: “Traete, fili de la puta!”, che riprende la frase: “Fili de le pute traite”, tratta da un dipinto della fine del XI secolo conservato nella Basilica di San Clemente in Laterano, a Roma. Questa iscrizione è considerata il primo esempio di utilizzo di un volgare italiano entro un ambito artistico, e non è un caso che poco più avanti si rintracci un’altra citazione illustre, i Placiti Capuani: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”. Queste celebri testimonianze processuali riguardanti l’appartenenza di alcuni terreni ai monasteri benedettini di Capua, Sessa Aurunca e Teano, registrate tra il 960 e il 963, rappresentano i primi documenti redatti in un volgare italiano (nello specifico campano) a noi pervenuti. I personaggi de Il nome della rosa, però, non potevano conoscere queste parole, poiché il brano fu riscoperto solo nel Settecento da Erasmo Gattola (1662-1734), archivista del monastero di Montecassino. I placiti, inoltre, sono documenti che, all’epoca in cui vissero i personaggi immaginati da Eco, non avevano il grande valore culturale che in seguito hanno assunto per i posteri: è tutto un gioco dello scrittore.
In definitiva, si può ipotizzare che anche queste due osservazioni aiutino a capire uno dei significati del romanzo: come la biblioteca del monastero de Il nome della rosa, la letteratura era per Umberto Eco un vasto labirinto, dove ogni strada si riconnette a un’infinità di altri percorsi, in un viaggio interpretativo infinito.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Citazioni possibili e impossibili ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Umberto Eco Storia della letteratura Aforismi e frasi celebri
Lascia il tuo commento