Il corpo in cui sono nata
- Autore: Guadalupe Nettel
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: La Nuova Frontiera
- Anno di pubblicazione: 2022
Il nostro aspetto esteriore può determinare la nostra identità?
Attraverso la scrittura de Il corpo in cui sono nata (La Nuova Frontiera, 2022, trad. it. di Federica Niola) l’autrice messicana Guadalupe Nettel compie un percorso tortuoso, una forma di psicanalisi in parole, svolgendo una sorta di terapia in prosa.
Per tutto il corso della narrazione la scrittrice si rivolge a una psicologa, una certa dottoressa Sazlavski che in realtà non le risponde mai - è figura muta e invisibile, forse un espediente narrativo - spettatrice silenziosa di un monologo che si traduce presto nel racconto fiume di una vita e sembra rompere tutti gli argini.
Alla fine del romanzo, dichiaratamente autobiografico, Guadalupe Nettel si concede un’affermazione curiosa:
Forse quando l’avrò finalmente terminato, per i miei genitori e mio fratello questo libro non sarà altro che una sequela di menzogne.
Sembra svelare, di proposito, di essere un narratore inaffidabile: e noi lettori non abbiamo altro mezzo per verificare la veridicità della sua storia perché l’ha raccontata lei e soprattutto - solo lei - può raccontarla.
Giunti alle battute finali de Il corpo in cui sono nata i lettori si trovano quindi di fronte a uno scarto imprevisto: l’attendibilità della testimonianza viene messa in dubbio. Nettel improvvisamente sembra domandarsi se quando raccontiamo il nostro passato non tendiamo forse a riscriverlo e se, in fondo, ogni oggettività non sia in parte soggettiva.
Ognuno, d’altronde, racconta una verità che è soltanto sua e di nessun altro. Gli eventi che accadono, osserva l’autrice messicana, assumono contorni quasi fisici e mano a mano che ce ne distacchiamo sembrano essere proprietà di un’altra persona, i nostri ricordi diventano un corpo estraneo che appartiene a un altro.
Da brava narratrice Guadalupe Nettel sa che una stessa storia può essere raccontata da diverse prospettive; ma per raccontare la propria vita ne sceglie una unica - forse fallace, ma indubbiamente autentica - la sua.
Quindi articola il racconto della propria “unica storia” attraverso il primo strumento che viene dato a ciascuno di noi per entrare in contatto con il mondo: il corpo.
Non è forse il corpo, in fondo, che ci permette di percepire la realtà? E sino a che punto la nostra fisicità può definire il nostro modo di guardare?
Ne Il corpo in cui sono nata Nettel cerca di dare risposte a queste domande attraverso un’evoluzione che ha il sapore di una trasformazione, quella di una bambina che progressivamente diventa donna. Bruco, crisalide, farfalla; e poi che altro?
La storia di un’identità in divenire che si struttura attraverso un corpo che cresce e cambia e si modifica, mentre percorre il cammino perennemente ignoto della vita.
Sono nata con un neo bianco, che altri chiamano voglia, sulla cornea dell’occhio destro.
L’incipit del romanzo si apre impietoso sulla descrizione veritiera, netta, senza fronzoli, di un difetto fisico. Ci pone dinnanzi una diversità palese, impossibile da nascondere. Nettel dice tutto subito, spiega al lettore come stanno le cose con precisione scientifica: eppure la storia - nonostante ciò che si potrebbe pensare - non è il racconto di una malattia né di una guarigione, è semplicemente “vita nel suo farsi”. Vita in divenire. Un racconto di formazione senza alcuna morale stucchevole, ricco di quelle strane, inconoscibili, casualità che formano l’esistenza e, alla fine, ci rendono ciò che siamo.
Essere allenata a vedere
Anni Settanta. La piccola Guadalupe nasce con un problema alla vista che la rende diversa. Sin da subito capisce che è costretta a lottare per ottenere ciò che ai suoi coetanei è già dato per una combinazione genetica più fortunata. La sua infanzia è un continuo processo di correzione: deve essere “allenata a vedere”, così come altri invece si preparano per partecipare a un campionato sportivo. L’occhio bendato; gli esercizi; la fatica costante di mettere a fuoco; le gocce che bruciano forte e quei brevi, estatici momenti in cui può finalmente togliersi il cerotto e liberarsi dalla sua prigione.
Nettel rivolge alla se stessa di allora uno sguardo di commovente tenerezza, ricordando le domande indiscrete degli altri bambini che fissavano con diffidenza il suo occhio bendato, chiedendo con impertinenza: “Che hai fatto lì?” come se sotto la benda nascondesse qualcosa di pericoloso, un segreto terribile.
Guadalupe non è sola, li riconosce subito i bambini come lei - quelli diversi - affetti da altri tipi di anomalie, ma accomunati da una sensazione comune:
Condividevamo tutti la certezza di non essere uguali agli altri e di conoscere meglio la vita rispetto a quell’orda di ingenui che, nella loro breve esistenza, non avevano ancora affrontato nessuna disgrazia.
La diversità che rende unici
Non può vedere come gli altri, ma può sentire il doppio di loro. Quell’occhio bendato in qualche modo amplifica le sue percezioni, le dona un “sesto senso” che forgia il suo talento di scrittrice. Presto capiamo che è stato proprio quel “neo bianco sulla cornea” così caratteristico, da lei descritto come un difetto, che ha permesso a Guadalupe Nettel di diventare la persona che è. Mentre tutti si affannano per guarirla, per correggerla, renderla uguale agli altri, è invece proprio quella diversità che la rende unica: se stessa.
La condizione marginale vissuta durante la prima infanzia l’ha condotta a ricercare nell’immaginazione, e in seguito nella scrittura, una sorta di risarcimento. La penna diventa dunque la bacchetta magica per riscrivere ciò che della vita non è possibile cambiare.
L’autrice rintraccia quindi il consolidarsi della sua vocazione letteraria recuperando i sentimenti di se stessa bambina. Nel giro di poche pagine quell’“occhio pigro, difettoso” perde importanza, viene quasi dimenticato, per proiettarci all’interno di una storia di ben più ampio respiro.
Il movimento dell’esistenza accelera e quindi il lettore viene catapultato, a sua insaputa, nelle dinamiche della bizzarra famiglia di Guadalupe Nettel.
I genitori intellettuali e libertari che credono nella possibilità di essere una cosiddetta “coppia aperta”, ma ne vengono in seguito distrutti. Una madre bellissima e triste che trascinerà i due figli in pazzi viaggi intorno al mondo alla ricerca di che cosa non si sa; forse di una felicità irraggiungibile, ma premurandosi di educarli sempre alla libertà. Un padre che svanisce, ricompare e di nuovo scompare. Una nonna severa e un po’ dispotica - modello di una società patriarcale ormai estinta - che sembra imprigionare i nipoti in una sorta di casa-museo che puzza di naftalina.
Gli anni corrono a perdifiato e portano il futuro. Un futuro nuovo, lustro, tutto da vivere che conduce a inevitabili scontri generazionali, a ribellioni mai pacificate, suscitate dalla voglia di crescere e svincolarsi dalle proprie radici.
Il corpo come trama della vita
La penna di Nettel corre in una prosa turbinosa che riesce solo ai narratori abili. Mescola così romanzo di formazione, memoir, autobiografia alle tinte più audaci dell’horror e della commedia. Perché in fondo la vita è una mescolanza di generi letterari, non ne segue mai uno solo come insegnano le scuole di scrittura.
Ecco che la storia individuale si mescola a quella familiare e quindi a quella collettiva di un intero Paese, il Messico degli anni Settanta. Intanto quel corpo cresce e si muove in diverse geografie e latitudini, esplora territori diversi come la Francia. In poche parole, vive.
Quella che è iniziata come la narrazione di un difetto diventa semplicemente vita impetuosa che corre e si avviluppa su se stessa. E il lettore si perde correndo dietro a questi pensieri in divenire che ci ricordano che l’infanzia è una stagione breve, e quasi mai innocente. Un periodo transitorio, ma determinante, nel definire ciò che siamo e saremo.
I comportamenti acquisiti durante l’infanzia ci accompagnano per sempre e, anche se a forza di volontà li teniamo a bada, acquattati in un luogo tenebroso della memoria, quando meno ce lo aspettiamo ci saltano in faccia come gatti inferociti.
scrive Nettel in una illuminante intuizione psicanalitica che mette in luce come i demoni e i mostri che tiranneggiavano i nostri incubi di bambini siano in fondo gli stessi che ora, mutati, ci inseguono nell’età adulta. Ci lasciamo mai davvero alle spalle l’infanzia?
Tra amicizie perdute e ritrovate, dolori, delusioni, successi e gioie inattese, ecco che il futuro accade e si materializza in un nuovo presente.
Infine non vi è nessuna trasformazione, nessuna guarigione miracolosa, ma semplicemente una forma matura - adulta - di accettazione. La consapevolezza di poter guardare a ritroso tutto il percorso affrontato che ci ha permesso di essere ciò che siamo diventati.
Il lungo viaggio attraverso oltre trent’anni di vita si conclude con un messaggio commovente che racchiude l’invito a essere sempre se stessi, con tutte le proprie forze.
I miei occhi e la mia vista erano rimasti immutati, ma vedevo in modo diverso. Finalmente, dopo un lungo periplo, mi ero decisa ad abitare il corpo in cui ero nata, con tutte le sue particolarità. In fin dei conti era l’unica cosa che mi apparteneva e mi vincolava in modo tangibile al mondo, e insieme mi consentiva di distinguermene.
La ragazzina dall’occhio bendato è diventata una scrittrice. La sua storia la definirà lei con una penna in pugno, spartendo i torti e le ragioni, decidendo i vinti e i vincitori, come può fare soltanto chi ha sviluppato un’autentica consapevolezza di sé.
Il corpo in cui siamo nati,
conclude Guadalupe Nettel nel folgorante finale
non è lo stesso con cui lasceremo il mondo. Non mi riferisco soltanto alle cellule che mutano un’infinità di volte, ma ai suoi segni distintivi, ai tatuaggi e alle cicatrici che con la nostra personalità e le nostre convinzioni aggiungiamo via via, per tentativi, meglio che possiamo, senza guida né indicazioni.
La vita in fondo è come un continuo processo di scrittura e riscrittura che ci porta ad accumulare rughe, cicatrici, tracce tangibili e altre invisibili che riportiamo sulla pelle come una geografia fisica, la mappa esteriore dell’esistenza che abbiamo attraversato.
Noi ci abbandoniamo al flusso e semplicemente mutiamo, affrontando tutte le sfaccettate, multiformi possibilità offerte dalla vita. Perché c’è sempre una strada - e ciascuno ha la propria, come rivendica Nettel attraverso la sua preziosa, commovente testimonianza.
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