La violenza insensata e brutale della guerra prende corpo nelle immagini a colori che oggi scorrono sugli schermi dei nostri televisori in un continuo bombardamento visivo e sonoro; ma un tempo furono evocate dai poeti tramite liriche drammatiche piene di struggimento che, pur senza mostrare, riuscivano a dire tutto il necessario. Una delle poesie più incisive sulla guerra è certamente Viatico di Clemente Rebora che si presenta come uno straziante fermo-immagine, presentando il corpo mutilato di un soldato in agonia.
È possibile rendere la morte poetica? Si può rappresentare un moribondo senza risultare impietosi o, peggio, degli sciacalli? Rebora, incredibilmente, ci riesce donandoci con Viatico una poesia intensa, ma non raccapricciante, drammatica, ma non orrorifica. Ritrae la scena con la precisione di un fotografo - quel soldato che muore è davanti agli occhi del lettore, davvero riusciamo a vederlo - aggiungendovi tuttavia la forza irriducibile di una componente umana che si riverbera attraverso le parole toccandoci nel profondo con l’onda d’urto implacabile della commozione.
Il passaggio - quasi impercettibile - dal tu al noi è il vero “coup de théâtre” attraverso cui Rebora ci rende tutti partecipi di quella morte dalla quale non possiamo, in alcun modo, restare indifferenti o reputarci “assolti”. È sufficiente la morte di un singolo soldato per restituirci l’enormità del male della guerra, di ogni guerra.
Viatico di Clemente Rebora è tratta dalla raccolta Poesie sparse (1946), per scriverla l’autore si ispirò a una scena cui assistette dal vivo, mentre era soldato nel dipartimento fanteria sul Monte Podgora, al confine con la Slovenia, durante la Prima guerra mondiale. Poco lontano scorreva l’Isonzo, il fiume che si sarebbe tinto di sangue in quella battaglia terribile che ispirò le note dolenti di O Gorizia, tu sei maledetta. “Il ritorno per tutti non fu”, così si concludeva il canto anti-militarista; lo stesso ci ricorda la poesia di Rebora.
“Viatico” di Clemente Rebora: testo
O ferito laggiù nel valloncello
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri,
tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento,
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio-Grazie, fratello.
“Viatico” di Clemente Rebora: analisi e commento
Viatico trae origine da un ricordo, ma si fa anche metafora della vita di Clemente Rebora, poeta del nostro Novecento, che fu giornalista, insegnante e sacerdote, prendendo i voti nel 1929 e dedicando la propria vita all’Istituto della Carità.
La poesia reca infatti nel titolo un riferimento al sacramento cristiano dell’estrema unzione che si impartiva ai malati gravi e ai moribondi. Era l’ultimo gesto di pietà riservato agli afflitti; un atto di consolazione che Rebora avrebbe ripetuto molte volte nel corso della sua esistenza, forse per purificare anche il proprio cuore dall’impotenza che aveva vissuto in trincea durante la Grande Guerra.
Come Ungaretti, Clemente Rebora fu soldato sul Carso nel 1915 nel dipartimento di fanteria. Quell’esperienza avrebbe avuto un impatto indelebile sulla sua coscienza e difatti l’avrebbe ripercorsa in tutte le sue poesie, in cui il tema della guerra ritorna sotto vari aspetti, adottando ogni volta versi e schemi diversi, per denunciare e mettere in luce l’insensata violenza che faceva da padrona in quegli anni feroci.
Rebora ci narra una scena di morte, ma pone nel titolo il suo atto di assoluzione o di redenzione: Viatico è il conforto che si dà ai moribondi, raffigurando l’agonia di un soldato morente l’autore sembra insegnarci una maniera d’esistere.
Nella descrizione di quel corpo dilaniato, martoriato, ormai ridotto a una cosa che non è più un uomo tra “melma e sangue”, viene denunciata la crudeltà inenarrabile della guerra, il male allo stato puro, che giunge a sfigurare l’umanità sino a renderla irriconoscibile.
La lirica si compone di versi liberi che hanno un ritmo vorticoso, capace di tradurre in parole la sofferenza patita da quel corpo straziato. Il tutto accelera verso il finale, spezzato dal verso centrale “affretta l’agonia”, finché dopo “demenza che non sa impazzire” (un apparente ossimoro che ben rende il pathos del momento, ovvero il culmine dell’agonia) ecco si compie nel silenzio, sotto gli occhi attoniti dei compagni, la morte del soldato.
Non è tuttavia la morte a chiudere la lirica di Rebora, ma un riferimento alla vita e al futuro: in quel “grazie fratello”, pronunciato dai soldati a guisa di funerale, possiamo cogliere un riflesso dell’ungarettiana Fratelli, ovvero l“’involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità”. Nel “grazie” è insito anche un profondo riferimento patriottico a tutti i nostri caduti, a tutti i soldati morti per l’Italia sul piano del Carso. Ma nella morte di quell’unico soldato si riflettono migliaia, milioni di morti, che tuttora avvengono nel mondo per opera del fuoco dell’artiglieria.
Nel respiro spezzato del soldato di Rebora che scivola nel silenzio dell’oblio ci riconosciamo all’improvviso tutti mortali; tutti “fratelli”, come conclude appunto il poeta, nella comunione umana del dolore.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Viatico”: la poesia sulla guerra di Clemente Rebora
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