Storie italiane sotto cieli stranieri
- Autore: Roberta Rubini
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2022
Sembra che l’Italia da terra di emigranti sia diventata Paese d’immigrazione. Chi lo sostiene guarda le migliaia di extracomunitari che varcano i nostri confini, ma dimentica gli italiani che hanno lasciato il Sud, soprattutto giovani e molti con una laurea in tasca, non più con la valigia di cartone.
Due milioni negli ultimi vent’anni, nei primi del terzo decennio del Duemila, quando Roberta Rubini ha pubblicato Storie italiane sotto cieli stranieri, in prima edizione a luglio 2022 (122 pagine), da Iacobelli editore, di Guidonia-Roma.
Marsicana under 50, nata a Carsoli, in provincia dell’Aquila, laureata in lettere, sposata e due volte madre, Roberta Rubini scrive intensamente, pubblica da un quindicennio e partecipa con successo a premi letterari. Per Iacobelli ha firmato nel 2016 Sorrisi e lacrime. La guerra di Riccardo e La mente nel pozzo, storia di depressione, nel 2018.
La ferita dell’emigrazione non si rimargina, osserva nella prefazione il poeta Franco Arminio, da Montenero di Bisaccia. Si definisce “paesologo”, per la vocazione a raccontare i paesi come luoghi dell’anima, spazi rarefatti di una socialità introvabile altrove.
Diverse una dall’altra e nemmeno contemporanee tra loro, le dieci storie narrate da Roberta Rubini sono legate da un fil rouge: lo “spaesamento” dell’emigrazione.
“Un paese ci vuole”, scrive l’autrice nel primo racconto, citando Cesare Pavese. Ha proprio quel titolo.
Paese vuole dire non essere soli, sapere che c’è qualcosa di tuo nella gente, nelle piante, nella terra e che resta ad aspettarti anche quando non ci sei.
È la terra natale, scrive: la vita ha girato per secoli intorno a un pezzo di terra. Terra da dissodare, arare, seminare, da cui raccogliere. Terra da curare, amare e rispettare. Terra conforto e dannazione. Terra da toccare prima di morire, da prendere in pugno e gettare in una fossa. Terra da cui partire, dove tornare, che sempre accoglie.
Terra per ricongiungersi con i vivi e con i morti. Nei piccoli paesi è come se si creasse un legame indissolubile anche tra quelli che non si sono mai conosciuti.
Sono tornati nei loro paesi, sebbene non da vivi, anche due italiani legati per sempre ad ogni discorso sull’emigrazione, il piemontese Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco da Torremaggiore-Foggia. I loro nomi sono indivisibili da quasi un secolo.
Il loro destino racconta una profonda ingiustizia, per il giudizio capitale che li ha condotti al patibolo, innocenti.
Il Canada è un Paese al quale tanti italiani devono molto. Lontano, nordico, freddo, eppure caro. Sembrava offrire una vita migliore, insieme ai gelidi inverni e alla malinconia nel cuore. Un posto in cui andare per stare meglio, come hanno fatto in tanti nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, prima del boom economico.
Hanno abbandonato l’Italia per tentare di avere più fortuna altrove. E il Belgio? Braccia in cambio di carbone, l’accordo stretto nel secondo dopoguerra. Le miniere belghe abbondavano di materia prima energetica, ma difettavano di manodopera, eccedente invece nel Sud Itali, immiserito dal conflitto, dove non devastato.
Calabria e Limburgo. Ad accomunare due luoghi diversi e non solo per la distanza, è Rocco Granata, nato a Vegliaturo, nel 1938, un piccolo paese dov’era un bambino sereno, con una bella famiglia, meno povera di altre, una casa dignitosa, tanti parenti e amici. Ma il padre era inquieto, insoddisfatto, voleva dare di più ai suoi.
Salì sul treno appena si presentò l’occasione, precedendo di un anno Rocco, la madre e la sorellina Vanda.
Uggioso e cupo “lu Belgiu”, che tuttavia prometteva una vita migliore. Con otto milioni e mezzo di abitanti si preparava ad accogliere centinaia di migliaia di italiani, letteralmente venduti con l’accordo uomo-carbone.
I belgi lasciavano il lavoro duro delle miniere agli italiani. Nel 1946, De Gasperi aveva firmato il patto che prevedeva per l’Italia l’acquisto di carbone in cambio dell’invio di cinquantamila giovani (in undici anni, ne arrivarono tre volte tanti). Il governo belga s’impegnava a spedire ogni mese in Italia un minimo di 2.500 tonnellate di carbone ogni mille minatori immigrati. Il contratto obbligava ciascuno a cinque anni di lavoro continuativo nell’inferno della miniera, con l’obbligo di farne almeno uno, pena l’arresto. Dalla sera alla mattina, paesi e città si svegliarono tappezzati da manifesti nei quali non si faceva cenno al viaggio (tre giorni e tre notti), ai vagoni sudici e privi di servizi igienici nei quali gli emigranti sarebbero saliti. Non venivano citati i mille metri di profondità che i lavoratori avrebbero dovuto raggiungere in gabbie malsicure e i cinquanta centimetri di altezza delle vene di carbone in cui avrebbero dovuto strisciare come vermi.
I primi tre racconti “Un paese ci vuole”, “Halifax” e “L’eroina di Monogah”, sono stati premiati in diversi concorsi letterari. Questo libro è “prezioso”, secondo il poeta paesologo Franco Arminio, perché parla dell’emigrazione italiana all’estero.
Sebbene sia stato un fenomeno vasto, non molte opere letterarie ne parlano. Nelle cronache degli ultimi anni sono presenti solo gli immigrati, mentre è molto più difficile sentir parlare della nostra emigrazione.
Il lavoro di Roberta Rubini “fa pensare” alle sofferenze di chi è andato altrove.
A lettura finita, il pensiero va a chi riposa in cimiteri stranieri. La letteratura serve anche a riportare in vita gli assenti. Questa raccolta di racconti assolve pienamente il suo compito.
Storie italiane sotto cieli stranieri
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