La Passione di Cristo come metafora della malattia e della morte, il calvario dell’uomo. Nella raccolta I Canti dell’Infermità di Clemente Rebora, il poeta sacerdote del nostro Novecento, il tema del dolore viene narrato attraverso il simbolismo della croce che attraversa l’immaginario cristiano. Nell’opera simbolo della sua produzione poetica l’autore ribadiva l’equivalenza “Dio=Amore” che aveva già preannunciato nel suo epistolario.
Il Venerdì santo acquisisce un significato speciale nei versi di Rebora, soprattutto nella poesia Solo calcai il torchio che sembra essere ispirata ai versi di Dante narratore del Paradiso nella Divina Commedia.
Solo calcai il torchio è la penultima poesia della raccolta I Canti dell’Infermità e vi si toccano vertici drammatici che infine sfociano nella climax dell’invocazione ripetuta: Gesù! Gesù! Gesù!.
Scopriamone testo e analisi.
“Solo calcai il torchio” di Clemente Rebora: testo
Solo calcai il torchio:
con me non era nessuno:
calcarono su me tutti:
inebriato quasi spreco di sangue
in una rossa follia:
solo il torchio calcai:
liquido amore profuso
in estremo furore,
calcai il torchio, solo:
solo a torchiare,
solo a spremere il sangue mio:
tutto il mio Sangue sparso,
tutto in me già arso
dall’Immacolato Cuore di Maria:
invisibile ardore, quaggiù:
l’incomprensibile amore del Padre.
Gesù Gesù Gesù!
“Solo calcai il torchio” di Clemente Rebora: un’analisi
Prima di analizzare questa poesia è necessaria un’opportuna premessa sulla vita di Clemente Rebora e sul profondo contatto con il dolore sperimentato dal poeta. La malattia, fisica e anche psichica, ebbe un riscontro specifico nell’opera di Rebora anche prima della sua consacrazione sacerdotale. Nel 1915, durante l’esperienza militare sul fronte goriziano, Rebora sperimentò un trauma che ebbe serie conseguenze sulla sua psiche: una terribile esplosione lo lasciò apparentemente illeso, ma il ricordo di quell’evento scatenò in lui una nevrosi che lo condusse alla soglia della follia. I casi più complicati di queste nevrosi, sperimentate dai soldati di ritorno dal fronte, venivano curati dalla psichiatria in manicomio: esperienza che lo stesso Rebora visse per alcuni brevi periodi. Dapprima nella sua vita ci fu la malattia psichica: dunque la nevrosi causata dalla guerra, cui seguì una grave crisi depressiva; dopo venne l’arteriosclerosi degenerativa che l’avrebbe costretto a letto sino alla quasi completa infermità. Clemente Rebora dettò i suoi ultimi versi da infermo, non potendoli più scrivere a mano, dovette affidarli ad altri. La scrittura poetica in qualche modo attraversava - e scalfiva - il silenzio opposto dalla malattia. Anche Rebora - da uomo prima e da sacerdote poi - aveva sperimentato la sua via crucis, la propria personale “Passione”. I suoi versi diventano il racconto di un “martirio”, non poi così dissimile da quello patito da Cristo in croce.
“Solo calcai il torchio” di Clemente Rebora: commento
Il patimento fisico e morale, sperimentato dallo stesso Rebora, si riversa nella lirica Solo calcai il torchio che inserisce la narrazione del dolore in un contesto mistico-religioso preciso, ovvero la Passione di Cristo sul Monte Calvario. Nel finale il dolore si converte nel suo significato morale: diventa il sangue versato da Cristo per la salvezza dell’intera umanità.
Il poeta-sacerdote sente di essere chiamato a essere imitazione di Cristo, imitator Christi, annullandosi nella sofferenza per farsi tramite della redenzione. Nella poesia infatti la voce narrante appare confusa, non è chiaro chi sia a parlare: è Cristo o è Rebora? Il dubbio sull’io lirico accresce il significato morale dei versi: quel “solo” rappresenta il punto maggiore della riflessione, tanto che è citato più volte nel corso del testo attraverso anafore, chiasmi, inversioni sintattiche. Il titolo deriva da una citazione del profeta Isaia contenuta nei Salmi:
Torcular calcavi solus.
La stessa dicitura latina è ripresa in alcuni affreschi antichi che raffigurano la Passione. Nella poesia di Rebora quel “solus” ha un duplice significato: comprende sia Cristo crocifisso, sia lo stesso poeta, uniti nella medesima sofferenza. Cristo viene spremuto dalla “rossa follia” del torchio della croce, si fa pigiatura per distillare la bevanda eterna, il suo sangue diventa una sorta di “amore liquido”. L’amore di Gesù distilla dal suo corpo come sangue: è violento e materico insieme. Tutta la poesia di Rebora sembra essere attraversata da una mistica ardente, impetuosa, quasi aggressiva, esemplificata dall’uso dei verbi, quali “torchiare”, “spremere”, “ardere”, e dall’invocazione finale che ne rappresenta la climax: Gesù! Gesù! Gesù!.
Nell’ultima parte della sua vita, costretto alla quasi totale infermità, Clemente Rebora si sentiva partecipe del sacrificio di Cristo.
L’immagine della torchiatura è molto forte e se ne rintraccia la presenza anche nel Diario del poeta che, nel 1930, all’inizio del suo percorso sacerdotale, scriveva:
Gesù Cristo si torchia sotto il peso della croce. (...) Onde si spreme il suo Santo Sangue e stilla dal colatoio, sotto il quale i devoti bevono la purificazione eterna.
In questa suggestiva - a tratti violenta - immagine di redenzione è custodito il significato di Solo calcai il torchio di Clemente Rebora. Il poeta avrebbe custodito questa visione dentro di sé rielaborandola infine in una delle sue maggiori (e più espressive) liriche dove la croce appare come penitenza e salvezza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Solo calcai il torchio”: la Passione di Cristo nei versi di Clemente Rebora
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