Han Kang, la scrittrice premio Nobel della Letteratura 2024, aveva già nel 2014 con Atti Umani affrontato il problema della memoria singola come di una memoria collettiva vicina a lei in qualità di tempo storico.
Con il nuovo romanzo Non dico addio, pubblicato oggi da Adelphi nella traduzione di Lia Iovenitti, il suo sguardo cambia a livello della temporalità di memoria, ma non nella densità dell’analisi.
Han Kang e la storia coreana: un passato che sembra prolungarsi
L’autrice affronta una pagina rimossa della storia delle Repubblica di Corea: le decine di migliaia di morti civili massacrati nel 1948 nell’isola di Jeju-do perché sospettati di essere comunisti.
Con la sua narrazione, Han tocca corde su uno spartito storico e politico del passato di Corea che sa di violenza e morte, ma che sembrano prolungarsi (nella loro non comprensione e accettazione) come ombre nella recente storia. Una vicenda non risolta preluderà nel 1953 proprio alla guerra di Corea e, nella contemporaneità, a un dialogo sempre meno dialogo tra le due Coree, quella del Nord e quella del Sud. In un anfiteatro narrativo che sa di morte e di violenza, Han Kang riflette, come in uno specchio concentrico, le attuali situazioni non risolte.
“Non dico addio”: ricordo di un trauma collettivo
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Il romanzo Non dico addio ruota attorno a un fatto storico accaduto a Jeju-do, attraverso una scrittura circolare che si fa ellisse. Le pagine sembrano avere un solo scopo: identificare e stigmatizzare la memoria, quella del ricordo di un trauma collettivo che non si esaurisce, ma si rimodula in diverse gradazioni anche a distanza di anni, riproponendosi incompleto, manchevole, irrisolto e capace di trasformare la natura genetica e generazionale del ricordo e della memoria di un popolo.
Un ricordo di un trauma dove ciò che è emozione (il dolore, la sofferenza, la perdita) non va mai perduto, ma si rigenera, ampliato e diversificato, offuscato di generazione in generazione, quasi a sfiorare l’oblio.
Nella continua ricerca di una necessità di analisi, comprensione, amplificazione, accettazione è necessario un atto di coscienza e non di distrazione, poiché la sofferenza non va perduta: resta nelle cose, permane negli uomini, nel loro vissuto, nella loro carne viva, sulla pelle viva. Intaccando la vita e l’esistenza, non passa.
“Non dico addio”: personaggi e ambientazione
La narrazione, come è stile della scrittrice coreana, ha fili semplici e segue un io narrativo, Gyeong-ha, che ha scelto l’isolamento per elaborare il trauma.
Come “una lumaca” che in qualche modo, con la sua lentezza, cerca di sopravvivere al contesto di dolore e di perdita, Gyeong-ha fa visita all’amica morente, In-seon, e alla madre di lei, Jung-shim, una sopravvissuta del massacro di Jeju-do. Il racconto delle loro singole esperienze e del dolore ereditato da questa tragedia diventa il trampolino di lancio per Han Kang per esplorare il ricordo e l’elaborazione del trauma e del lutto della tragedia vissuta nell’isola.
Un’isola, quella di Jeju-do, permeata della memoria di questo passato traumatico, ma che vuole dimenticare, nascondendo tutto, come si nasconde la polvere sotto il tappeto. Questo desiderio di oblio è un atto semplice e sbrigativo anche se non dovuto, che l’autrice identifica con l’errore del vivere contemporaneo e che fa riemergere subito, poiché c’è la necessità di “fare i conti” con il proprio passato (sempre) e ancora di più quando questo passato riguarda un’intera collettività.
La scrittura di Han Kang come elaborazione e accettazione del dolore
Una mancata elaborazione, comprensione e accettazione di un atto di violenza come quello perpetrato a Jeju equivale a un suo “non superamento” di dolore dell’anima. Un dolore che si trascina irrisolto, incompiuto.
Ma il dolore si può trasformare e farsi resistenza e poi memoria, che si condensa in poesia contemplativa attraverso una scrittura snella e sintetica, efficace. Sono queste le armi stilistiche con cui Han Kang affronta i temi a lei cari: la vita e la morte singolarmente e nella loro ambivalenza, nonché la perdita e l’impossibilità di staccarsi, di dare l’addio definitivo.
Evidente e palese è la lacerazione nell’anima che si palesa nei singoli e nella collettività che cerca di sanare solo le ferite, non accettando la casualità che le ha causate e prolungando quelle lacerazioni che da singole diventano patrimonio collettivo.
Anche l’accettazione delle conseguenze di queste lacerazioni assumono rilevanza e
Sono fiotti inesauribili di ricordi, soprattutto se sono insanguinati.
L’incontro tra i personaggi Gyeong-ha, Jung-shim e In-seon è centrale, poiché fa emergere un profondo bisogno di fare i conti con il passato, trasformando il dolore in resistenza e mostrando come la memoria diventi un atto di solidarietà.
Il potere dello stile di Han Kang
Con un linguaggio poetico e contemplativo, Han Kang rimodula temi come il rapporto tra vita e morte, la perdita e l’impossibilità di un addio definitivo e nelle sue righe il dolore si fa resistente e resistenza di un popolo che stenta a fare i conti con il proprio passato recente e remoto.
L’autrice ribadisce con la sua prosa poetica, intensa e altamente evocativa, immagini forti che rappresentano sofferenza, memoria e resilienza di quella sofferenza dell’uomo che si dilata dal singolo alla collettività
La scrittura si fa meditativa e lenta, con un ritmo regolare modulato e modulare che segue quello del dolore. Di quel dolore profondo dei personaggi incapaci di riflettere, di elaborare e di dimenticare.
Il dolore non si dimentica. Con il dolore si vive. Con il dolore si condivide. Il dolore si riconosce e si fa palese con liricità, frasi incise e concise, con parole minuziosamente individuate e con sfumature e significanti capaci di donare alla narrazione la veridicità dei fatti raccontati e di quella memoria evocativa, l’intimità e il rispetto verso l’altro, verso il suo trauma, verso il suo dolore.
La narrazione così frammentata si trasforma in quell’intreccio che si fa ricordo di un vissuto, del singolo e della collettività, disgregandosi e rimodulandosi.
La memoria come atto evocativo essenziale
I fatti, le immagini naturali, così come le metamorfosi, sono descritte in chiave di quel sensoriale fatto di immagini naturali e metafore legate alla luce, alla neve e al silenzio, quasi a voler enfatizzare il contrasto tra la violenza del passato e il bisogno di pace del presente e nella natura quotidiana.
Insomma un romanzo diverso questo della scrittrice coreana (per molta critica statunitense e francese il migliore diffusivo in Europa), capace di dare voce al silenzio sia delle vittime che della storia o di una parte di essa, che non ha né voce, né ricordo ma solo un nebuloso oblio.
Lo attraversa la ricerca spasmodica di una memoria storica che la Han vuole mantenere viva nel suo paese (e non solo), troppo rivolto al suo futuro. Un paese completamente miope e senza memoria per il suo passato recente o remoto fatto di sangue, ingiustizia e dolore.
La memoria si fa e diviene atto evocativo essenziale, naturale e necessario, non solo collettivo e singolo.
La sua poliedricità declina questo atto come necessaria esperienza atta a preservare e onorare la dignità umana, dove una ferità ancora aperta e non del tutto compresa diventa fonte di lettura trans-generazionale del contemporaneo, nonché collante profondo di un’epoca e di un popolo.
“Non dico addio”: la memoria non è un saluto definitivo
Ribadiamolo ancora una volta: in Non dico addio, la memoria si fa ricordo seguendo la necessità di testimoniare e di essere confronto, speculando tra individuo e collettività e facendosi elemento di forza di legami tra passato, presente e futuro. Una memoria visionaria ed elaborativa, dunque, di atti compiuti. Atto creativo e di costruzione di identità collettiva, in una costante unione con il passato che ha il compito di fare da monito poiché
la memoria è come un dovere, un modo per onorare chi non è più presente e per affrontare le ferite storiche ancora aperte.
La memoria non è dimenticanza. Non è un’assimilazione del dolore o della perdita. Non è il saluto definitivo. Non è un addio, ma si trasforma, quasi si solidifica in ricordo che rimodula e trasforma il saluto definito.
E l’io dell’uomo e dell’umanità, secondo la Han, non dirà mai un addio definito ma
Solo un arrivederci, a te che sei lontano, ma vicino nel mio cuore.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Non dico addio” di Han Kang: perché leggere il nuovo romanzo del Nobel per la Letteratura 2024
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