Negli ultimi anni nel cinema italiano ci sono stati diversi tentativi di raccontare le province dimenticate, lontane dall’Italia da cartolina e dall’oleografia turistica. Con Le città di pianura, Francesco Sossai firma un’opera che riesce – con pochissimi inciampi – a restituire un’immagine sincera di uno dei territori più contraddittori e sfuggenti della Penisola: la pianura veneta.
“Le città di pianura”: contenuto del film
Il film è apparentemente semplice: due cinquantenni devastati dall’alcol, Carlobianchi e Doriano, vagano di osteria in osteria tra gli orrori edilizi del Veneto d’oggi, incontrano un giovane studente di architettura, Giulio, e lo trascinano nel loro piccolo universo vizioso e marginale.
Allo spettatore disattento – o forse addirittura alla maggioranza del pubblico – questa pellicola potrebbe anche apparire solo come un Big Lebowski in salsa veneta, ma sotto la superficie da tragicommedia alcolica c’è un racconto stratificato che ha per vero protagonista un territorio intero, col suo declino antropologico, culturale, e il suo degrado ambientale.
Il tutto è recitato in un linguaggio veneto e in un italiano regionale autentici, pregio non da poco a fronte di scempi come quelli che si sono uditi anche in tempi recenti, basti pensare a Il signor diavolo (2019) di Pupi Avati, in cui lo storpiamento della lingua locale risulta perfino offensivo.
Il Veneto come personaggio
Il Veneto ritratto nel film è una terra sfregiata, in cui tutto è stato svenduto e barattato, travolto dalla storia. A fine Ottocento la Terraferma veneta (che politicamente è una realtà molto diversa, e separata, dalla città di Venezia) era la Vandea dell’Opera dei Congressi, la patria di alcuni tra i più battaglieri polemisti cattolici, poi è venuto il partito popolare e quindi la DC, ma finché c’è stata la miseria il Veneto è rimasto la “sacrestia d’Italia”. È stato con il boom economico che è cambiato tutto: c’era sempre la DC, ma il Cattolicesimo è stato sostituito dalla religione del lavoro (per i dipendenti) e dalla religione dei "schei", cioè dei soldi (che invece era appannaggio dei padroni). Dio ha smesso di essere chiamato affettuosamente "el Paron", cioè il padrone, e l’unico "Paron" è rimasto il titolare della fabbrica o fabbrichetta.
Naturalmente è cambiato il ritmo stesso della vita: si è passati dal tempo del sacro al tempo del lavoro, che ha occupato praticamente ogni spazio. Potremmo sintetizzare il discorso con poche parole:
Qui un tempo si pregava, adesso si lavora...e se fa i schei.
Qualche tradizionalista ha coniato il termine dispregiativo: "Ateoveneti". Di pari passo con la distruzione della cultura è stata portata avanti anche la devastazione del paesaggio, stuprato dai capannoni e da troppi sgorbi di cemento che hanno soffocato intere località – come in una battuta del film ricorda tristemente un aristocratico. Ciò che resta nel presente di questo "Veneto post-mezzadrile" è una distesa di capannoni in disuso e di case orrende; "casa nova no basta" cantava Gualtiero Bertelli in Mi voria saver, una canzone del 1975: la casa nuova non basta... ma di sicuro è bastata a distruggere la campagna veneta. Quando sono apparse le "case nove" – seppur prive di ogni buongusto –, gli ex-contadini hanno accolto il cambiamento come un miracolo; c’era persino chi si ricavava un cucinotto in garage e viveva lì per timore di "rovinare" le camare (le camere).
Poi anche quelle brutte abitazioni sono state abbandonate durante l’evoluzione più recente del nuovo Veneto, non più cattolico, né contadino, né democristiano, né socialista, né operaio, ma liquido, come il vino che scorre nelle vene di tanti fantasmi che lo popolano, dibattendosi tra il desiderio dei "schei" e la malinconia.
In quella che è la scena centrale della pellicola, viene mostrato un affresco che adorna una villa veneta destinata a essere distrutta per lasciare spazio a qualche nuova strada inutile. È un capriccio: un’immagine di fantasia che mostra Venezia vicina alle montagne, cancellando ciò che sta nel mezzo, cioè appunto le città di pianura. Si tratta di una metafora potente, e serve il meridionale Giulio – uno che viene da fuori, dall’esterno – per interpretarla: la pianura è un vuoto ignorato, dimenticato.
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Giulio è un elemento di straniamento, una figura distaccata che permette allo spettatore (anche e soprattutto veneto) di osservare il mondo di Doriano e Carlobianchi con occhi nuovi. Lui è l’esploratore della provincia schiacciata tra le Dolomiti e la laguna. Nel suo libro I padroni delle città (Feltrinelli, 2010), il giornalista Curzio Maltese (1959-2023) racconta che un giorno, durante un’intervista a Giorgio Panto in quel di Meolo, l’imprenditore ricevette una telefonata da un cliente inglese e gli rispose: "Sure, I’m near Venice". Citando Aldo Bonomi, Maltese spiega che
Gli imprenditori nordestini all’estero dicono ’Near Venice’ anche se stanno a Verona o a Belluno.
E dovrebbe essere proprio un’allusione a Giorgio Panto la scena del film in cui un imprenditore atterra tra i suoi dipendenti con l’elicottero per donare un "reojo" (un orologio) a un lavoratore che sta per andare in pensione.
C’è solo un aspetto del film che stona con la realtà fattuale. In una scena un turista tedesco si interroga sull’americanizzazione degli italiani; è un cruccio legittimo, per carità, ma appare davvero strano che un tizio si renda conto di un fatto come questo, o se ne stupisca, nel 2025. In che pianeta vive quel tedesco, è un ragazzino della Hitler-Jugend che è stato ibernato nel 1938? Ma forse è semplicemente un uomo ubriaco, come tutti gli altri personaggi. Certo è che, ai giorni nostri, sarebbe stato più naturale se il viaggiatore avesse espresso qualche osservazione relativa al fatto che "anche il paesino più sperduto del Veneto è invaso da magrebini e bengalesi", che di "integrarsi" non hanno nemmeno la più pallida intenzione. Il concetto di sostenibilità si fonda sull’idea di garantire il soddisfacimento dei bisogni attuali senza compromettere la possibilità delle generazioni future di godere delle stesse risorse. Tuttavia tale principio non riguarda unicamente risorse naturali come i combustibili fossili, o la forma del paesaggio, o i tesori artistici, bensì anche le dimensioni culturali e sociali di un territorio...
Ma nel film di immigrati non se ne vede neppure mezzo. Risulta quasi fantascientifica la scena in cui Carlobianchi e Doriano arrivano a Venezia in piena notte, sereni, senza essere letteralmente assediati da branchi di agguerriti venditori di rose venuti da Dacca o da altri assillanti abusivi (che alle spalle, ovviamente, hanno dei padroni che li controllano).
Parlando di altre migrazioni, affiora anche il tema dell’esodo veneto di ieri e di oggi, con la fuga all’estero di un personaggio ai ferri corti con la giustizia e con le note della canzone popolare "Merica, Merica, Merica! / Cossa saràla ’sta Merica?", uno dei canti più famosi degli emigranti veneti che andarono in Brasile a cercar fortuna.
“Le città di pianura”: un film anti-nostalgico
Sossai, però, non indulge mai nella nostalgia. I suoi due alcolisti non sono riducibili né a eroi pseudo-proletari "a loro agio nel disagio", né a macchiette stereotipiche.
Doriano, interpretato magistralmente da Pierpaolo Capovilla, è una figura autentica e viva: un vero "mostro" sub-urbano, con il cervello spappolato dall’alcol, pressoché incapace di esprimere pensieri compiuti. Ma forse è anche – paradossalmente – il personaggio più emblematico del film: esiste in quanto amico di Carlobianchi. Lamentarsi del fatto che Doriano non parli veneto è un errore di lettura: è il figlio di una frattura linguistica, la generazione "della svolta" – non paga di aver distrutto il paesaggio per un pugno di "schei" – ha anche voluto distruggere la cultura, proibendo ai figli di adoperare le lingue madri, le lingue degli avi. Per gli ex-contadini la cultura rurale era superstizione e la lingua un marchio da levarsi di dosso per mostrare di aver fatto "i schei", e di essere "moderni". Privandoli del linguaggio della famiglia e degli affetti, molti genitori hanno trattato i figli come estranei, e infatti hanno cresciuto degli estranei. Sono stati cresciuti tanti orfani culturali, estranei in casa propria, degli sradicati: anche questa è una delle ferite del Veneto contemporaneo.
Nella speranza di "vincere" (vincere cosa poi, nessuno lo sa...) si è tentato di cancellare tutto. Oggi il genocidio antropologico pasoliniano prosegue con il culto dello studio dell’inglese, che nelle menti degli "illetterati" non rappresenta affatto una forma di accrescimento del sapere, ma solo uno strumento per giungere ai "schei". Nel 2025 ci sono ancora persone convinte che basti sbarcare a Londra o a New York parlando fluentemente inglese per diventare automaticamente ricchi.
Ma non andiamo fuori tema, Sossai non indugia mai nel compianto, né nella denuncia esplicita. Al pari di uno scrittore verista lascia che siano Carlobianchi e Doriano a raccontare la realtà con i loro volti disfatti, le risate strascicate e le bevute senza fine. Perché i due protagonisti sono veneti che sono passati anche oltre la religione del lavoro: non lavorano più (hanno già dato), bevono e non si pentono. Cercano il bicchiere della staffa con la stessa ostinazione con cui i loro vecchi cercavano un presunto riscatto sociale, gli anziani li rimproverano e gli dicono: "Bea vita!" (Bella vita), ma lo spettatore non è certo che quei vegliardi abbiano avuto un’esistenza migliore, anzi.
L’esistenza rimane un mistero, e nell’edonismo dei due compari c’è una risonanza squisitamente letteraria, che richiama la famosa ultima sigaretta de La coscienza di Zeno: l’ultimo bicchiere viene inseguito e giustificato, ritardando costantemente la fine della festa, prolungando l’ebrezza all’infinito per non affrontare mai la realtà, sino al poco credibile "Non bevo più" (che dura giusto il tempo di superare i postumi di una sbronza).
Citazioni e metafore del film
All’occhio dello spettatore curioso, diversi passaggi del film possono apparire come delle citazioni che spaziano dal cinema alla cultura pop. Forse alcune sono solo suggestioni, ma appare difficile credere che il regista non avesse almeno in mente Svevo e l’ultima sigaretta di Zeno. La battuta di Carlobianchi che non beve succhi di frutta e preferisce gli alcolici, più prosaicamente, sembra un rimando a Ramboso, un famoso doppiaggio amatoriale in veneto del film Rambo, che ormai più di 15 anni fa riscosse molto successo. La scena in cui i due alcolisti si concedono un gelato, invece, ricorda un famoso dialogo del film Amore Tossico (1983) di Claudio Caligari (1948-2015).
Ma in definitiva, bastano pochi minuti di film per capire che Le città di pianura non è affatto un Big Lebowski alla veneta; il tono del film dei Coen è rilassato e persino riposante, qui invece è tutto frenetico, caotico, disperato. I tre protagonisti sembrano sempre sull’orlo del disastro, sul punto di schiantarsi con la macchina in qualche incidente tremendo causato dai fumi dell’alcol, e non si capisce cosa cerchino, quale sia la loro meta. La tensione è continua, come se più di una scena potesse finire in tragedia.
Verso il finale del film, le riprese girate presso la Tomba Brion chiudono il cerchio dell’allegoria del capriccio. Un artista veneto, Angelo Rinaldi (1942-2023), una volta ha detto che:
I cimiteri italiani di oggi sembrano dei grigi parchi giochi, sono chiassosi, disordinati, profondamente brutti.
Il Memoriale Brion è una giostra nell’ennesimo cimitero-parco giochi, un monumento al contempo brutto e solenne, incastonato in un territorio martoriato come l’ennesima cicatrice. Esso è l’ultima metafora del film: una ferita cementizia che però, a suo modo, si integra con il paesaggio sfigurato, e si mescola con la sua agonia grigia, da zona industriale abbandonata. I due cerchi intersecati che Giulio osserva pensoso si ricollegano al capriccio visto nella villa, due realtà distinte (i monti e la laguna) e la loro intersezione: la pianura, con la disintegrazione e la coesistenza sforzata di storia, modernità, tradizione e rovina.
Le città di pianura non è un film perfetto, e probabilmente non entrerà nella storia del cinema italiano. Alcuni dialoghi sono troppo didascalici, e certi simbolismi eccessivamente espliciti, un difetto – quello dell’inserimento difficoltoso di riflessioni filosofiche in discorsi spontanei – che ancora una volta ritroviamo anche in certe pagine di Svevo. Ma c’è un cuore pulsante di verità. Questa pellicola sa raccontare un pezzo d’Italia che pochi vogliono vedere: il Veneto che ha "vinto" la ricchezza e perso tutto il resto nel giro di una sola generazione, che ha barattato addirittura la sua cultura (sia popolare che alta) con un benessere precario che non si sa nemmeno quanto potrà durare, e che ora guarda nel bicchiere (fortunatamente ancora pieno) senza nemmeno sforzarsi troppo di cercare un senso. Amaro, ma necessario per digerire una grande abbuffata: come un bicchiere di Petrus.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Le città di pianura”: un’ultima sigaretta sveviana nel Veneto di oggi?
Ottima recensione.
Spiace invece il commento critico sull’arrivo a Venezia in piena notte… non vi accolgono “branchi di venditori affamati…”, non vi accoglie nessuno, perché i pochi presenti hanno i loro problemi da risolvere (tanto quanto i nostrani protagonisti del film).