La figlia dell’ottimista
- Autore: Eudora Welty
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: minimum fax
- Anno di pubblicazione: 2018
Pubblicato nel 1972 questo romanzo valse ad Eudora Welty il premio Pulitzer nel 1973: ora la Minimum Fax lo pubblica nella collana “Classics”, riempiendo un vuoto che andava giustamente riempito, essendo l’autrice, scomparsa nel 2001, una delle voci più rilevanti della letteratura del Sud degli Stati Uniti. In molte pagine di questo breve, ma intensissimo romanzo viene da pensare a Faulkner, per il senso di attesa di qualcosa di incombente e tragico, che stenta a manifestarsi nel microcosmo presbiteriano della cittadina di Mount Salus, dove ha luogo buona parte del racconto.
L’incipit del romanzo, "La figlia dell’ottimista", mostra lo studio del dottor Courtland, oculista di New-Orleans, davanti al quale siedono il giudice McKelva settantunenne pensionato, grosso e corpulento. Ai suoi lati la figlia quarantenne Laurel, vedova, appena giunta da Chicago dove lavora come disegnatrice e Fay, la seconda moglie del giudice, giovanissima, paffutella, capricciosa.
Nel sistemare le fioriture nel giardino della sua bella casa McKelva deve essersi ferito ad un occhio e ha cominciato a vederci male. Pur convinto nel suo inguaribile ottimismo che non sia nulla di grave, si sottopone alla visita che rivela invece il distacco della retina. Dovrà essere operato e rimanere immobile nel letto per alcune settimane. Viene vegliato a turno dalla figlia e dalla giovane capricciosa Fay, che non si rassegna al fatto che il marito silenzioso e depresso deperisca ogni giorno di più.
La lettura ad alta voce dei libri preferiti da parte di Laurel non lo rianima. La morte giunge inaspettata a seguito di uno sgradevole episodio di cui Fay si è resa protagonista. Alle due donne non resta che riportare a casa la salma del giudice.
E da questo punto il romanzo si fa davvero inquietante.
Laurel e Fay sono diverse, non si apprezzano, non si capiscono, non si accettano. Nella vasta proprietà dove la madre di Laurel, Becky, è morta oltre dieci anni prima, tutto sembra essere rimasto al suo posto: dalla vecchia Missouri, la tata di casa, a Miss Adele Courtland, la sorella dell’oculista, che abita al confine della proprietà McKelva e si sente un po’ la custode delle memorie familiari dopo che Laurel se ne è andata per sposare Philip, un ufficiale di marina morto in guerra nel Pacifico.
Nelle ore successive al funerale del giudice, Eudora Welty mette su un palcoscenico straordinario dove si muovono le comparse di questo racconto: le “damigelle” che erano state le amiche di Laurel, cercano di trattenerla nella sua casa, che ora appartiene alla dispettosa Fay, che aveva giurato di essere orfana e sola, mentre viene raggiunta da un’improbabile famiglia texana, mamma, sorella, nipoti, che vorrebbero quasi installarsi nella magnifica casa del giudice. Quando sembra che Fay si sia allontanata insieme alla numerosa famiglia, Laurel rimane sola, a contemplare i ricordi della sua infanzia, a ricercare gli oggetti che le erano cari, rivivere atmosfere dimenticate e ripensare al rapporto con la madre, a quello tra i suoi genitori.
Se la cifra della letteratura americana è il simbolismo, basti pensare "Moby Dick" o a "La Lettera Scarlatta", ecco che nella scrittura di Welty riaffiorano oggetti simbolici che sono in filigrana il filo conduttore del racconto: lo stesso nome di Laurel, che allude all’alloro, la pianta cara ai poeti, le tante piante rare che affollano il giardino, in un intrico di fioriture e di germogli che alludono alla complessità dell’esistenza. I libri amati dal giudice, per lo più classici, posti ordinatamente negli scaffali della libreria, a dare un senso di continuità nella trasmissione del sapere, un uccello che svolazza incapace di uscire, che impaurisce Laurel chiusa in casa per l’ultima volta, la vecchia macchina da cucire che aveva mantenuto il suo solito posto, i fasci di lettere che la madre inviava al padre quando era lontana, lassù al nord dove trascorreva un mese d’estate. Oggetti dalla forte potenza simbolica,come la spianatoia intagliata a mano da suo marito Philip “Hand”, capaci di ricostruire le vite degli abitanti della casa, il loro affetto, le loro incomprensioni mai rivelate. Nelle ultime pagine il rapporto tra le due donne conclude il racconto in modo violento, ma alla fine pacificato, dato che Laurel ha capito finalmente, in quelle poche ore trascorse nella casa della sua giovinezza troppo presto abbandonata, molte cose su cui non aveva riflettuto:
Il ricordo non viveva nel possesso iniziale ma nelle mani libere, assolte e libere, e nel cuore capace di svuotarsi e tornare a riempirsi, nelle fantasie restituite dai sogni.
Ha detto lo scrittore Michael Chabon: “Come scrittore sono in debito con Eudora Welty” e forse non solo lui!
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