Nell’aprile del 1850 uscì la seconda edizione della Lettera scarlatta dato che, in una decina di giorni, il romanzo – pubblicato a metà marzo dello stesso anno – aveva fatto vendere al suo autore 2500 copie.
Non solo, Nathaniel Hawthorne fu presto famoso; il suo primo romanzo, in quattordici anni, divenne un bestseller negli Stati Uniti e gli fece anche guadagnare 1500 dollari.
Il romanzo era preceduto da un’introduzione dello stesso autore, intitolata La dogana, interessante sia dal punto di vista metaletterario che autobiografico e politico-sociale. Lo spazio dedicato alla descrizione della dogana di Salem, nel Massachusetts e degli uomini che vi lavoravano ebbe un’eco profonda nella piccola comunità d’origine dello scrittore, tanto che Hawthorne – sorpreso e divertito per «l’agitazione senza precedenti» creata in quella rispettabile comunità e soprattutto in un suo «venerabile personaggio» – ritenne opportuno aggiungere una lettera, come prefazione alla tanto vituperata introduzione, nella quale cerca di sdrammatizzare e assicura di aver riletto attentamente le pagine introduttive e di non avervi trovato nulla di sconveniente o di offensivo.
Non solo, egli ritiene di avere «espresso le sue sincere impressioni» sui personaggi descritti con «franca e genuina bonomia» e di non aver riversato il suo astio per motivi personali o politici in quelle pagine.
La biografia dell’autore ci aiuta a comprendere meglio; infatti, Nathaniel fu nominato supervisore presso la suddetta dogana nel 1845 e dopo avervi lavorato quasi tre anni, fu epurato – secondo la nota politica della spoils system – in quanto democratico; infatti, le elezioni presidenziali del 1848 fecero salire al potere Zachary Taylor del partito Whig.
Alla fine della lettera – scritta a Salem il 30 marzo 1850 – l’autore dichiara con fermezza che ritiene essenziale – proprio per ribadire la sua assoluta estraneità alle illazioni avanzate sulla sua descrizione degli anni presso la dogana della sua città – di essere costretto a:
Ripubblicare le sue parole introduttive senza cambiare una parola.
Queste le premesse, dalle quale partiamo per tentare una disamina il più possibile oggettiva della lunga e interessante introduzione.
L’introduzione della “Lettera scarlatta” di Hawthorne
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L’autore si dilunga nella descrizione di Salem, del suo porto e della sua baia evidenziandone l’antico fervore prima che mercanti e armatori gli preferissero Boston o New York e descrivendo i venerabili uomini dell’ufficio della dogana che sopravvivono in una flaccida inerzia: sia in estate che in inverno.
Eppure, nominato capo di quella dogana, non infierì sui suoi sottoposti (quasi tutti del partito dei Wings), per lo più vecchi e sazi delle loro vecchie glorie che, come capitani marittimi, avevano trovato un porto per il riposo nell’ufficio della dogana.
Costoro, in un primo momento, terrorizzati perché consapevoli delle simpatie democratiche di Hawthorne scoprirono presto “il loro sorvegliante non era un uomo da far paura”; infatti, il nostro autore non si comportò come era prevedibile e non li sostituì con dei giovani molto più efficienti e capaci, anche se avrebbe potuto giustificare quella scelta con la legittimità di inserire al loro posto funzionari democratici.
L’autore sottolinea che non tutti erano in stato di rammollimento ma, a parte qualche eccezione, per lo più i veterani di quell’ufficio non erano che:
«Un’accolta di vecchie anime stanche che dalla diverse esperienze di vita non avevano tratto proprio niente degno di sopravvivere».
Molto spazio viene riservato alla disamina attenta e impietosa di uno degli ispettori della dogana, il patriarca di quel manipolo di anticaglie, anzi di tutti i doganieri degli Stati Uniti, un vero e proprio figlio del sistema doganale, nato e cresciuto all’ombra calda del fisco allora già sull’ottantina, ma ancora vegeto.
Costui sicuramente si era conservato bene, soprattutto grazie alla vita tranquilla d’ufficio, era sopravvissuto alla morte di molti dei suoi venti figli e ridiventava facilmente vispo e gaio dopo un lieve sospiro che gli serviva a mettere da parte i propri dolori:
«Le mie considerazioni, dopo un attento studio, furono che in questo raro campione umano non fosse né cuore, né mente, né anima. Istinti e null’altro […] sprovvisto com’era di ogni senso di responsabilità, immune da acciacchi e ottenebramenti senili, quasi un bruto, era per altro in grado di godersi la vita assai meglio dei bruti».
Il sarcasmo della descrizione tocca punte altissime quando l’autore parla di una delle sue qualità più spiccate: la ghiottoneria e la capacità di ricreare con vivezza di particolari i profumi e i sapori deliziosi dei suoi buoni pranzi in quelli che lo ascoltavano parlarne; tanto che l’unica vicenda tragica della sua vita riguardava la durezza della carne di un’oca che aveva immaginato squisita.
Altro personaggio del quale l’autore non può tacere è “un ricevitore della dogana”, un tempo valoroso generale a capo di una selvaggia regione del West, ormai settantenne e pieno di infermità, che passava ore e ore vicino al fuoco, perso nei suoi ricordi di glorie passate, che appariva come una vecchia spada arrugginita in mezzo ai calamai e agli altri oggetti di cancelleria. E ancora, viene descritto “un vecchio uomo d’affari” capace di risolvere questioni complicate con un’acutezza e una capacità di adattamento inimmaginabili definito come la molla più importante di quella dogana.
La biografia di Nathaniel Hawthorne e le premesse de “La lettera scarlatta”
Con evidente ironia lo scrittore parla della sua vita passata prima di accettare l’incarico a Salem e la definisce “piena di fatiche, affanni e progetti folli” nei quali godette di un cibo sopraffino.
Cita prima i sognatori della fattoria di Brook, alludendo alla comunità dei trascendentalisti di Brook Farm nella quale entrò nel 1841 e da cui uscì subito insoddisfatto dell’esperimento; poi, l’immersione nella poesia di Henry Wadsworth Longfellow e la frequentazione e le conversazioni con alcuni dei principali pensatori sociali e filosofi del suo tempo, tra cui Ralph Waldo Emerson, Henry Thoreau e Bronson Alcott.
Tornato a Salem, pur notando il degrado in cui era caduta non può tacere che nutre per la sua città d’origine un forte attaccamento:
«Sentimento questo cui forse non è estraneo il fatto che tutta la mia gente è di lì. A Salem infatti i primi inglesi che portavano il mio nome immigrarono duecentoventicinque anni fa, quando la colonia era ancora selvaggia, sparsa per la foresta dove è nata la città attuale. E quivi tutti i loro discendenti nacquero e morirono, mescolando alla terra la loro sostanza umana tanto che ormai deve esserci una certa parentela tra la zolla e questa mia mortale carcassa che la calpesta, e forse al fondo dell’attaccamento di cui vi ho parlato non è se non la misteriosa simpatia della polvere per la polvere».
Hawthorne si sofferma nella descrizione del suo “primo inarrivabile avo”, che giganteggiò a Salem per la sua gravitas e la sua figura vestita di nero sotto l’alto cappello a cono; che fu soldato, legislatore, giudice, membro del clero e soprattutto tremendo persecutore dei Quaccheri, che lo ricordano nelle loro cronache in particolare per il caso di una loro donna. L’efferata crudeltà di costui si raffinò nel figlio, ricordato per la capacità di inventare martiri per streghe e fattucchiere.
Certamente, questi suoi antenati lo avrebbero considerato un indolente e un fannullone, cosa di cui l’autore non si preoccupa affatto, “ritenendoli uomini terribili e esecrabili”, nonché responsabili del decadimento della sua famiglia a causa delle innumerevoli maledizioni che certamente si procurarono.
Dopo questi due avi famosi, gli altri discendenti non si distinsero in nulla, per più di cento anni furono marinai passandosi il mandato di padre in figlio, vagabondando sul mare e tornando a Salem per invecchiare e morire, facendo di Salem il proprio rifugio. La stessa cosa capitò a Hawthorne che più volte allontanatosi dalla sua città, vi era sempre tornato come se essa fosse il centro dell’universo, attratto dal fascino irresistibile che esiste tra ostrica e scoglio.
Il lavoro come soprintendente della dogana fece sì che il suo nome si procurasse una fama ben diversa da quella che sognava un tempo – lo vedeva, allora sul frontespizio di un libro – ora era stampato a inchiostro nero sulle mercanzie sulle quali erano stati corrisposti i diritti doganali e viaggiava raggiungendo luoghi impensabili e lontani.
Il destino però era in agguato, l’autore si ritrovò a passare ore nella lettura di documenti e altre carte ritrovati al secondo piano dell’ufficio doganale: tra le quali leggeva di mercanti, di battelli, di cose passate legate a quei primi uomini vissuti quando l’America era stata scoperta da poco. Fin quando non fece una scoperta di qualche importanza:
«Finché non ebbi fra le mani un piccolo fascio di documenti avvolti in una pergamena, pensai che si trattasse di carte d’ufficio, che a quei tempi si era soliti avvolgere alla pergamena».
La premessa del manoscritto ritrovato: un “topos letterario”
Questa è l’idonea premessa al topos letterario – ormai consolidato da Scott e Manzoni, solo per citare i più famosi autori che lo utilizzarono – del ritrovamento di un manoscritto alla base del desiderio di narrare una storia per farla conoscere anche agli altri.
Fin dall’inizio della introduzione era, infatti, emersa un’indicazione chiara sulle scelte di poetica dell’autore, di solito restio a parlare di sé e delle sue cose, che cede per la seconda volta all’autobiografia convinto che sia necessaria tra autore e lettore una diretta rispondenza, anche se il racconto è scritto in terza persona.
Il naturale pudore che lo accompagna nel parlare della sua realtà – lasciando il suo io più segreto sotto un velo – viene superato grazie all’illusione che si crei almeno con un lettore una ideale compagnia di sentimenti.
Inoltre, la scelta dell’autobiografia è giustificata anche con il desiderio di far conoscere a chi legge le circostanze nelle quali venne a conoscenza dei fatti inseriti nel racconto e dimostrarli autentici.
La scoperta del manoscritto viene rimandata ad arte, Hawthorne scopre che erano documenti appartenuti a un sorvegliante della dogana un certo Gionata Pue, morto un’ottantina di anni prima che si dedicava nei ritagli di tempo a ricercare vecchie storie del luogo.
In un involto misterioso ciò che lo colpì fu soprattutto un lembo di stoffa scarlatta con l’aspetto di una “A maiuscola”, che poggiato sul petto diede all’autore una impressione di bruciatura:
«Assorto com’ero nella contemplazione di quella lettera scarlatta, non avevo badato ad un piccolo rotolo di carta intorno al quale essa era avvolta. Aprii il rotolo e trovai la spiegazione completa del mistero. Il vecchio sorvegliante narrava in quei fogli, con ricchezza di particolari, la vita di una certa Hester Prynne che, a quanto pare, era stata persona molto in vista tra i nostri antenati. Aveva vissuto verso la fine secolo decimosettimo […] Ma quel manoscritto dava anche molte altre ragioni: chi voglia conoscerle legga La lettera scarlatta e sappia che tutti gli elementi del romanzo sono tratti dal documento autentico fornitomi dal sorvegliante Pue».
L’autore, per autenticare il racconto come vero, dichiara che i documenti di Pue sono ancora in suo possesso e che potrebbe mostrarli a chi incuriosito voglia vederli, poi aggiunge:
«Ma non si creda che il romanzo ricalchi l’arida cronaca del signor Pue: la mia fantasia ha dato pensieri, parole ed azioni ai personaggi, divenuti così creature del mio pensiero. Quella che io attesto è l’autenticità del fatto».
A Hawthorne sembra addirittura di vedere “lo spettro del sorvegliante” che, andandogli incontro nel vecchio stanzone abbandonato della dogana con la lettera e il manoscritto, li tende entrambi scongiurandolo di a far conoscere quella storia dalla quale otterrà un utile non lieve e di non omettere che da lui l’aveva ricevuta. Inutile dire che Nathaniel obbedirà e da quel giorno – passeggiando su e giù per la sua stanza d’ufficio – non farà altro che meditare sulla storia di Hester Prynne, suscitando il rammarico dell’ispettore e degli altri funzionari della dogana, disturbati nel loro piacevole sonno.
Troverà le condizioni più propizie per il lavoro di scrittore di notte, nel silenzio della sua stanza illuminata dalla luna, con il suo scenario noto di oggetti: dalla tavola, alla lampada, al divano e così via:
«E il chiarore lunare spiritualizza così tutti questi oggetti, pur chiaramente visibili, che lo loro sostanza da reale si trasmuta in fantastica, e la stanza familiare diventa il luogo più adatto perché la realtà si mescoli al sogno: al punto che se in quella luce fantastica apparisse l’immagine di una persona cara che non è più con noi non ne saremmo sorpresi; ma ci domanderemmo se veramente si tratti di una fantasia o se la persona cara non sia mai scomparsa dal mondo».
Eppure, perché la magia della scrittura si compia, è indispensabile anche la fiamma del caminetto:
«Grazie a quella fiamma una luce più calda penetra nella spiritualità gelida del chiaro di luna e infonde un palpito umano alle creature già suscitate dalla fantasia. Da fantocci di neve essa le trasforma in esseri vivi; e se guardiamo nello specchio, vi scorgiamo riflessi come in un vuoto sconfinato lo splendore bianco della luna e il bagliore rossastro dell’antracite prossima a spegnersi, mentre tutta la stanza appare ormai irreale e quasi fiabesca».
Nathaniel Hawthorne: da doganiere a scrittore di successo
La tentazione di scrivere un altro libro basato sulla sua vita, sulle fatiche d’ogni giorno reali e vicine viene ben presto allontanata, dopo la costatazione della decadenza che provoca il genere vita degli impiegati, imprigionati in una condizione più vicina a quella del bruto che dell’uomo.
Tra l’altro, proprio quando la sua vita da impiegato comincia a essere sempre più insopportabile, la Provvidenza interviene – in questi termini ne parla l’autore – a disporre per lui in modo di gran lunga migliore ad ogni lecita speranza con l’espulsione immediata da quell’ufficio dopo la salita al potere del Presidente Taylor.
Lasciato l’incarico, Hawthorne ridiventa uomo di lettere e lascia di nuovo e per sempre quella sua città matrigna, che poco prima aveva visto risorgere nelle luci della fantasia:
«Fra poco anche la mia città nativa mi s’annebbierà nella memoria, mi apparirà non più come una città del nostro mondo ma come un villaggio disegnato tra le nuvole popolato solo di creature fantastiche che si aggirano per quelle viuzze e lungo l’infinita monotonia della strada maestra».
Chiude, però con una speranza, affidata ai pronipoti dei suoi concittadini che forse un giorno rivolgeranno un ricordo commosso allo scrittore che lavorò nell’antica dogana di quella città, dove ammette di non aver mai trovato un’accoglienza e un calore di simpatia senza la quale in nessuno scrittore può maturare:
«La messe migliore del suo pensiero».
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La dogana”, l’importanza dell’introduzione alla “Lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne
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